“Tra poche parole è così difficile nascondersi come tra pochi alberi”. Questo è uno degli aforismi, celebrativo del genere, del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) che ha ispirato il titolo – editoriale – del suo libro appena uscito presso Adelphi (“Tra poche parole”). Si tratta del suo secondo libro pubblicato in italiano; il primo è uscito nel 2001, col titolo “In margine a un testo implicito”. Conosciuto pochissimo nel suo stesso paese, alla suddetta pubblicazione è seguito un effetto rimbalzo per cui è stato ripubblicato, in edizione elegante, in Colombia, dove è diventato autore di culto. Sono poi seguite altre edizioni, una spagnola e una francese. L’editoria italiana ha fatto da apripista, e non è cosa frequente.
Il primo libro ha avuto un quasi unanime successo di critica, e un buon successo anche di pubblico, cosa tutt’altro che scontata per un autore del genere. Le ragioni di questo successo vanno ricercate naturalmente nell’arguzia dello scrittore, nella sua intelligenza fine e acuminata, nella sua sterminata cultura, condita di umorismo sulfureo e squarci di malcelato lirismo. Ma naturalmente c’è dell’altro: sul piano ideologico, è un pensatore profondamente reazionario, cattolico tradizionalista, avversario di tutto ciò che è accaduto nel mondo dopo la “nefasta” Rivoluzione francese. “La Rivoluzione francese sembra magnifica a chi la conosce male, terribile a chi la conosce meglio, grottesca a chi la conosce bene”.
Gómez Dávila non ama la liberté: “La libertà è stata l’assillo dell’èra moderna, perché la salute ossessiona solo l’ammalato”; non ama l’égalité: “Quand’anche fossimo davvero uguali, non si vede perché l’uguaglianza debba essere un valore”; e naturalmente non va pazzo per la democrazia: “Le aristocrazie sono i parti normali della storia, le democrazie gli aborti”. C’è da dire che “supremo aristocratico non è il signore feudale nel suo castello, ma il monaco contemplativo nella sua cella”. E va da sé che codesto signore detesti la modernità: “Il moderno distrugge più quando costruisce che quando distrugge”. Ma ha a cuore la politesse: “Un po’ di pazienza quando si ha a che fare con uno stupido ci evita di sacrificare la nostra buona educazione alle nostre convinzioni”, e qui si è giocato anche la stima di quelli che sono orgogliosi della loro maleducazione perché indice di autenticità popolare e segno di distinzione da quegli educatoni radical-chic dei mitici salotti di sinistra.
Il popolo è bue per definizione: “A caratterizzare il gusto di massa non è l’antipatia per l’eccellente, ma la passività con cui si apprezza allo stesso modo il buono, il mediocre e il pessimo. Le masse non hanno cattivo gusto. Semplicemente non hanno gusto”. Ma Gómez Dávila non è un dispensatore di verità, ché spesso fa l’elogio del dubbio: “Solo l’anima esitante è immune dalla volgarità”. Non di rado si prende in giro da solo, direttamente: “La mediocrità che ci spaventa è forse l’ombra che proietta sul mondo la nostra stessa mediocrità”. O indirettamente: “Tra intellettuali la conversazione è scambio di idee altrui”. En passant, una spruzzata di catastrofismo redentore: “L’uomo non sa più se la bomba all’idrogeno sia l’orrore finale o l’ultima speranza”. Dove diventa feroce, però, è con la Chiesa post-conciliare: “Gli stupidi un tempo attaccavano la Chiesa, ora la riformano”; oppure: “Sul Concilio Vaticano Secondo non sono discese lingue di fuoco, come sulla prima assemblea apostolica, ma un torrente di fuoco: un Feuerbach”.
Naturalmente, un pensatore del genere fa la gioia di ogni reazionario autentico che si sente nobilitato dalla penna di Gómez Dávila; fa la gioia anche di quei progressisti che sono tali giusto per fare un favore al mondo, ma poi di fronte alla raffinatezza di un aristocratico che ha sbagliato epoca trovano dolce la resa e la loro gioia è ancor più dolce perché clandestina. Si tratta di un autore che può piacere a molti e diversi tra loro: al semplicemente colto, al nostalgico dei bei tempi andati, al sincero democratico sinceramente preoccupato delle derive della società di massa, al reazionario fine e a quello becero, a quelli che trasudano cinismo (ma non quando si tratta di “aiutare” un familiare o un amico, però questo è un altro discorso), a quelli che vanno pazzi per il politicamente scorretto (purché non sia lontano dal potere, ma anche questo è un altro discorso), che vanno pazzi per il pensiero scomodo (ma quanto sono prudenti nelle loro scelte di vita, ma anche qui stiamo scivolando nel più sinistrorso moralismo, che il colombiano ci fulmini), ai cattolici con tendenze “separatiste”, preoccupati dell’eccessiva secolarizzazione della Chiesa, sia quelli bigotti sia quelli raffinati (“Muoiano pure gli dèi, ma non quello stormir di fronde che li origina”), ai partigiani del sordido come elogio dell’imperfezione (“Di solito, il ricordo più grato di quasi ogni individuo è un ricordo sordido”).
Uno spazio a parte va dedicato a questo aforisma: “Sinistra e destra si distinguono per la diversa interpretazione che danno al titolo ambiguo di un Capriccio di Goya: ‘Il sueño della ragione genera mostri’. La sinistra traduce sonno, la destra sogno ”. Ora, la cultura italiana ha optato decisamente per sonno, chi scrive ha invece fondati sospetti che sia sogno. Ove avesse ragione Gómez Dávila, la cosa sembrerebbe positiva per la cultura italiana, inquietante per il sottoscritto.