“Spe salvi facti sumus”, dice Paolo ai Romani, e di lì comincia il Papa nella sua seconda lettera enciclica, per disegnare la vera fisionomia della speranza cristiana. Che non è soltanto una mera credenza soggettiva, ma è una ben più sostanziale trasformazione dell’intera vita del credente. Che non va coltivata soltanto nella sfera individuale e privata, ma ha necessariamente una dimensione pubblica e comunitaria. Che non può essere sostituita con le aspettative schiuse in età moderne dai progressi scientifici e tecnologici o dai progetti di palingenesi politica, perché tutti sono destinati a fallire. Che non può infine essere cancellata, perché si radica in un insopprimibile desiderio di bene e di felicità che alberga nel cuore di ogni uomo.
La formulazione più drastica di ciò che in queste proposizioni prende forma si trova in un testo di Jacob Taubes, “La teologia politica di San Paolo”, che conviene citare: “A Gesù viene chiesto: qual è il precetto più importante? Ed egli risponde: devi amare il Signore tuo con le tue forze e la tua anima e i tuoi mezzi tutti; poi aggiunge: ama il prossimo tuo come te stesso. Paolo – continua Taubes – non esprime un doppio precetto, lo rende anzi univoco […], il fulcro del discorso è l’amore non già verso il Signore, ma verso il prossimo. Non vi è alcun doppio precetto, ma un unico precetto”.
Certo Taubes sapeva essere molto netto, ma questa nettezza aiuta forse a decifrare alcuni passaggi decisivi dell’enciclica di Papa Benedetto XVI: quelli, in particolare, sui quali più facilmente può stabilirsi un terreno di confronto con la storia del mondo. Scrive infatti il Papa: che “la visione della «vita beata» orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con l’edificazione del mondo”, con la “positiva strutturazione del mondo”. Alla luce di queste parole, non meraviglia affatto che nella prima uscita dopo la pubblicazione della lettera il Papa abbia rivolto la sua consueta (ed energica) critica del relativismo morale all’indirizzo di istituzioni internazionali come l’Onu (che se un po’ relative non fossero, non si capisce come potrebbero funzionare).
L’amore verso il Signore è dunque amore verso il prossimo: nonostante, e anzi proprio grazie a quello “sguardo in avanti” con cui viene indicato “qualcosa al di là del mondo presente”, la vita eterna. Non vi è nulla di più efficace, infatti, nell’orientare fin d’ora la nostra vita di quell’inaudita speranza, e non v’è nulla di meno sorprendente che trovare in questa enciclica profondamente politica una meditazione sui novissimi: la vita, la morte, l’inferno, il paradiso.
L’interpretazione che in questa chiave viene fornita del tempo storico è perciò la seguente: la modernità ha preteso di sostituirsi alla fede-speranza cristiana, ma né i progressi scientifici e tecnologici né le rivoluzioni politiche hanno potuto dare all’uomo quanto promesso. La rivisitazione critica dell’idea di progresso, che Papa Benedetto XVI viene svolgendo dall’inizio del suo pontificato, è coerente con l’idea che, ovunque vada a parare, non ci si possa attendere dal corso storico la soddisfazione del più profondo bisogno di bene e di felicità iscritto nel cuore dell’uomo. E come nella modernità la fede nel progresso ha reso gli uomini insensibili alla prospettiva del Giudizio finale, così oggi lo sbiadire di quella fede secolare rende più potente e vivido il riaffiorare del tema apocalittico della vita eterna.
Sin qui, tutto chiaro (anche se non tutto condivisibile, in specie il giudizio sulla modernità). Se non fosse che proprio la dimensione politica del cristianesimo storico richiede un supplemento di riflessione. E ciò soprattutto per le due ragioni che è possibile evidenziare all’interno dell’enciclica, riprendendone due significativi passaggi.
Il primo. Papa Benedetto ricorda come un tempo negli edifici cristiani si rappresentasse la speranza nel Risorto sul lato orientale, per ricapitolarla poi, sul lato occidentale, nella rappresentazione del Giudizio finale: solo che gli artisti trovavano immancabilmente di loro maggior gusto calcare la mano sull’aspetto minaccioso e lugubre della fine dei tempi. Fuor di metafora questo significa che quanto maggiore è la speranza tanto maggiore è la paura (e anche la ‘gestione politica’ della paura), e non è detto che l’uomo moderno, per quanto disilluso dalle dure repliche della storia, trovi ragionevole che l’orizzonte del tempo mondano si incupisca, pur di coltivare la speranza oltremondana di nuovi cieli e nuova terra.
Il secondo. Luogo di apprendimento della speranza è la sofferenza, dice il Papa. Chi spera, spera anzitutto che non si abbia più a soffrire, o che perlomeno la sofferenza abbia un senso. E così il Pontefice di Roma giunge sino a pensare di poter dare ragione all’Ivan de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, che si rifiutava di dare la sua adesione a un mondo, in cui la sofferenza della vittima innocente trovi un senso e possa essere risarcita per l’ingiustizia patita. Curiosamente, il Papa dà a Ivan precisamente quel che Ivan rifiuta: dice infatti Benedetto XVI che nel giorno del Giudizio il torto non verrà mutato in giustizia, e i malvagi non siederanno indistintamente accanto alle vittime. Ma Ivan non vuole affatto giustizia per le vittime: vuole anzi che le ingiustizie restino invendicate, perché la riparazione finale non attenui – neppure nella consolazione del giusto, o nella punizione del malvagio – lo scandalo insuperabile del male. Ivan rifiuta l’idea di redenzione: politica o teologica che sia. Non vuole che si agisca “a fin di bene”, e poco gli importa che a farlo sia l’uomo domani o Dio dopodomani, e che il paradiso promesso venga in questo mondo o in quell’altro. Se perciò il Novecento ha davvero insegnato, come sostiene il Papa, che è impossibile realizzare il paradiso in terra, e che pretendere di riuscirvi conduce a immani disastri, non è detto che ciò significhi che bisogna rinnovare la speranza in un paradiso ultraterreno, e non piuttosto imparare la lezione della storia e rinunciare più sobriamente al paradiso.