I Radiohead, uno dei gruppi più famosi e apprezzati del panorama musicale mondiale, hanno deciso di consentire di scaricare direttamente dal loro sito il loro ultimo lavoro, “In Rainbows”, in cambio di un’offerta libera. Sinora solo artisti indipendenti, poco noti o esordienti, avevano usato la rete per distribuire le loro canzoni. Una scelta per loro quasi obbligata, perché privi di un contratto con una major. Quella dei Radiohead è invece una decisione meditata, che rischia di essere letale per i grandi gruppi del music business. Solo Prince possiede un sito dal quale poter scaricare le sue canzoni, ma a un prezzo (0,99 dollari) non molto diverso da quello praticato dalle aziende che gestiscono il mercato degli mp3 legali.
Il mercato della musica sta cambiando velocemente e i grandi gruppi dell’industria discografica chiedono a gran voce leggi sempre più repressive del download illegale, a loro avviso il vero e unico responsabile della crisi del mercato discografico.
Il 4 ottobre scorso una notizia ha scosso il mondo di Internet. Una donna del Minnesota, Jammie Thomas, è stata condannata da un tribunale del suo stato a pagare una multa di 222.000 dollari, più 60.000 dollari di spese legali, per aver scaricato e offerto 24 canzoni in condivisione su Kazaa senza il permesso dei titolari dei diritti d’autore. E’ la prima volta che un tribunale degli Stati Uniti si pronuncia su un caso di file sharing. Alla Thomas è stata contestata la violazione del diritto esclusivo di riproduzione attraverso lo scaricamento non autorizzato (download) di brani musicali, nonché la violazione del diritto di distribuzione attraverso la condivisione degli stessi brani scaricati (upload).
La Riaa (Recording Industry Association of America), l’associazione dei discografici statunitensi, ha avuto la sua grande vittoria dopo anni di aperta guerra alla pirateria in rete. Ma c’è il rischio concreto che la sentenza si trasformi in un micidiale boomerang. La multa comminata a una donna di trent’anni, madre single di due bambini e con un reddito annuo di 36.000 dollari, è apparsa spropositata, di una durezza stupida.
La situazione in Europa non è molto diversa, ma varia molto da paese a paese. La Germania ha da poco varato una delle leggi più dure in materia: fino a due anni di galera per un file scaricato illegalmente. In Francia sono aumentate le pene pecuniarie ma non si rischia di finire in galera. L’isola felice resta ancora una volta la Svizzera, dove non è previsto nessun tipo di sanzione. Nel resto del mondo è il Brasile il paese più permissivo. Il ministro della cultura (nonché famoso musicista) Gilberto Gil ha promosso una legge che consente il download e lo scambio di file musicali attraverso le licenze Creative Commons che richiedono di specificare il nome dell’autore dei singoli brani scaricati e poco più.
In Italia la legge di riferimento è la n. 633 del 1941 e le sue successive modifiche, fino alla legge Urbani che ha inasprito le sanzioni sia penali sia amministrative. Per le violazioni del copyright per scopi personali (senza fini di lucro) sono previste multe da un minimo di 154 euro a un massimo di 1.032 euro, mentre le sanzioni penali vanno da sei mesi a tre anni di reclusione solo per chi ne trae profitto.
Ovviamente sono le major a spingere i governi ad approvare leggi sempre più severe nel tentativo di recuperare quote di mercato e milioni di euro di fatturato. Negli ultimi tre anni i discografici hanno perso 80 milioni di euro solo nel mercato dei cd singoli, che rappresentano il 35 per cento del mercato musicale. L’industria discografica sembra frastornata. Con la nascita del cd sono arrivati fatturati enormi grazie essenzialmente alla ristampa del back catalogue, con la conseguente vendita di milioni di album acquistati per sostituire i vecchi e fruscianti lp e musicassette.
Finito l’effetto catalogo, i discografici hanno subito un tracollo che non può essere attribuito solo al file sharing. Il prezzo dei cd eccessivamente alto ha spaventato i principali consumatori di musica registrata: i giovani. Certo, la diffusione di computer e internet, la disponibilità in rete di milioni di file musicali e l’estrema facilità di riprodurre musica ad alta fedeltà hanno inciso pesantemente..
E’ azzardato però pensare che tutto ciò che viene scaricato illegalmente rappresenti un mancato introito. La responsabilità delle case discografiche sta nella scarsa diversificazione delle proposte, nella tendenza a puntare sui pochi nomi famosi da cui si aspettano sempre grandi vendite e grandi profitti. Qualche giorno fa il capo della Emi, Guy Hands, ha minacciato pubblicamente di licenziare i suoi artisti più famosi, tra gli altri Kylie Minogue e Robbie Williams, accusati di lavorare poco.
L’impressione è che l’industria musicale non riesca a trovare il bandolo della matassa. Quasi tutte le etichette hanno concesso la loro musica ai siti di download legale, ma i prezzi sono ancora troppo alti, generalmente 0,99 euro. E’ un costo che può essere conveniente per i singoli di successo ma l’intero disco costa poco meno che in negozio, con una qualità più scadente e senza libretto e custodia.
Il consumatore finale viene considerato o un pirata o un pollo da spennare. Basti pensare che in Italia si paga una tassa ignobile per la “copia privata”, in attuazione della direttiva 2001/29/Ce, su tutti i supporti vergine (0,23 euro sui cd, il cui costo è quadruplicato) e su tutti gli apparecchi in grado di memorizzare e copiare musica ( il 3 per cento del costo di masterizzatori, hard disk, lettori mp3, ecc.). Le norme italiane consentono al possessore di un disco originale di farne una copia per uso personale e per questa deve pagare ancora i diritti d’autore alla Siae, la quale incassa soldi anche se sul cd vanno foto di famiglia, archivi personali o materiali per lavoro. Un balzello che tutti sono tenuti a pagare per l’impossibilità di individuare e perseguire le violazioni del copyright. Il risultato ottenuto è stato il fiorire di un crescente contrabbando di cd registrabili provenienti dall’estero, Cina in primis, che ha danneggiato i produttori di cd legali, gli autori e gli editori che non incassano la tassa e lo stato italiano che non incassa l’iva. Un bel risultato, non c’è che dire.