La prima conseguenza positiva del voto del Senato sulla Finanziaria è che le scadenze temporali si sono allungate almeno un po’. Un governo interamente consegnato alle cronache delle sue giornate parlamentari difficilmente passa alla storia. Ma anche un’opposizione il cui respiro politico non va al di là della prossima votazione e, quando questa non dà gli esiti sperati, non sa fare altro che dare appuntamento alla votazione successiva, difficilmente è in grado di indicare una prospettiva al paese. Naturalmente, lo scenario che si disegna ora avrebbe avuto tinte diverse se nel voto del Senato il governo fosse andato sotto, ma anche quell’esito infausto avrebbe comunque richiesto agli attori politici di pensare non più in termini di giorni e ore, ma di mesi e anni.
Cioè di futuro. Ma di quale futuro è capace il paese? Se esistesse, l’indicatore più attendibile della qualità dell’azione politica di un paese dovrebbe essere proprio costruito in termini di capacità di futuro. Sta messo meglio ed è più forte quel paese la cui classe dirigente vede più lontano. Quando la scienza politica mosse i suoi primi passi, tra Platone e Aristotele, si pensava che la politica meritasse tra le scienze la posizione più eminente proprio in virtù di questa capacità. Tutti converranno – scriveva ad esempio Aristotele – che la scienza “più direttiva e architettonica in sommo grado” è manifestamente la politica. Ma tra la scienza architettonica degli antichi e le mosse tattiche architettate a Palazzo Madama, fatte di giorno e magari disfatte di notte, passa una bella differenza.
Restituire capacità di futuro al paese dovrebbe essere invece il primo compito della politica. E’ quello che ha detto recentemente, tra gli altri, un architetto, cioè uno che di futuro se ne deve intendere per forza perché – come ha giustamente ricordato in un’intervista su Repubblica – se progetta un obbrobrio, l’obbrobrio che ha tirato su se ne sta comunque in piedi per un bel po’. Bene: quest’architetto, che non è uno qualunque ma è Renzo Piano, ha progettato per Torino il grattacielo della banca Intesa-Sanpaolo, ma in città non lo vogliono, perché ne rovinerebbe la skyline, essendo più alto della Mole Antonelliana. Al di là delle preoccupazioni per la cartolina di Torino più che per la città, è la paura del futuro, e forse ancor più il rifiuto o l’incapacità di immaginare per esso una nuova forma, quel che sta al fondo di reazioni del genere. La stessa paura, nota Piano, che il paese sembra nutrire per tutto ciò che sa di futuro: la società multietnica, le scoperte tecniche e scientifiche, la globalizzazione, la Cina. Tutte cose che qui da noi vengono viste anzitutto come minacce, non come opportunità.
Da questo punto di vista, quel che scrive Gianni Letta nel libro di Luigi Tivelli, “Chi è Stato”, anticipato dal Corriere pochi giorni fa, ha il pregio incomparabile dell’analisi che va oltre il breve periodo, oltre il respiro corto dell’attuale fase politica, oltre la conta di questa sera in Senato e la prossima che verrà fra qualche settimana. Vi sono nodi che bisogna sciogliere insieme, dice Letta, come s’era tentato di fare già una prima volta con la tanto deprecata e invece tanto da rimpiangere commissione bicamerale. E come nessuno accuserebbe le squadre di calcio che stabilissero insieme le regole di gioco e il calendario, per poi confrontarsi sul campo, così non ha senso evocare lo spettro dell’inciucio a ogni tentativo di fare lo stesso in politica. A Letta si può rimproverare solo di avere ceduto anche lui alla metafora calcistica, non la sostanza. Ma nel merito, perché un progetto del genere vada in porto, occorre che gli attori politici si facciano consapevoli che non tocca loro, e soprattutto non tocca al paese, giocare una sola, risicata partita, ma disputare un intero campionato. Senza questa capacità di guardare le cose in campo lungo, senza questa ambizione architettonica, che è l’ambizione originaria della politica, nessun disegno costituzionale vedrà mai concretamente la luce.
Purtroppo è vera anche la reciproca: senza un quadro costituzionale riformato, e un insieme di precondizioni che al momento non si danno, ben difficilmente la politica riuscirà a dispiegare un’azione incisiva, all’altezza delle sfide che l’Italia deve affrontare. Così ci troviamo in un circolo: c’è bisogno di buona politica per dare al paese la giusta architettura istituzionale, e c’è bisogno di una giusta architettura per produrre una buona politica. Circolo virtuoso o circolo vizioso? Finora è stato un circolo vizioso, a causa del quale non s’è mai riuscito a cominciare davvero. Ma ora che il Partito democratico è nato – è la domanda – si può sperare che abbia la capacità di innescare finalmente un circolo virtuoso, o dobbiamo star qui solo a contare i giorni del prossimo passaggio parlamentare, e poi di quell’altro ancora?