L’idea di un partito senza tessere fa discutere, e molto. Comunque, mentre se ne discute, s’è cominciato già con un partito senza simboli. Un partito senza alberi, fiori, bandiere, croci, scudi o altro genere di arnesi, che avrà anche impiegato molto per scrollarsi di dosso le eredità ideologiche del Novecento, ma che non ci ha messo altrettanto nello sbarazzarsi del ramoscello d’ulivo. Nuova stagione, cambio d’abito, e al simbolo si è deciso prestamente di rinunciare – almeno a giudicare dalla scenografia di sabato, alla nuova Fiera di Milano, in occasione dell’insediamento del nuovo segretario Walter Veltroni. Zuppi di verde, i padri costituenti non hanno avuto il bene di trovare un’icona floreale, una foglia, un ramo, una frasca che ne giustificasse il dilagare. Antropologi, sociologi, filosofi e storici dell’arte han preso nota, convinti che trovi conferma in questa povertà di simboli la diagnosi più pessimista circa la perdita della capacità di investimento simbolico del sensibile da parte dell’uomo contemporaneo. Che fuor di metafora vuol dire: non ci stiamo più a capire gran che.
Ma la nuova stagione, sul piano dell’immagine, si segnala anzitutto per la scelta rigorosamente monocromatica, in linea con le tendenze più avanzate dell’arte contemporanea. Yves Klein, che un colore l’ha addirittura inventato (l’IKB, International Klein Blue) ha spiegato molto bene come sia arrivato alla monocromia. A un certo punto, racconta, “sentivo sempre di più che le linee, i contorni, le forme, le prospettive diventavano esattamente come le sbarre sulla finestra di una prigione. Lontano, nel colore, stava la vita e la libertà”. Inutile dire che Klein considerava fosse un unico percorso quello che conduceva dal monocromatismo all’immaterialità. E così, senza volerlo, siamo di nuovo al partito liquido, senza tessere. Ma come che sia con questa faccenda delle tessere, Veltroni deve avere considerato che a lui tocchi anzitutto di fare coi simboli (e con le storie che in essi si riconoscono) quello che Klein sentiva l’esigenza di fare con le linee: cancellarle. Ossia: ridurre a zero l’apporto delle vecchie appartenenze partitiche. Dunque niente liturgie di partito, niente nomenclatura. E insomma – per dirla tutta – nulla che possa procurare l’impressione che il segretario sia soltanto un primus inter pares.
A far da contraltare a questo severo regime di steresi simbolica, però, sta la larga generosità nei confronti dei valori. Nonostante un bel manifesto sui valori il Partito democratico lo abbia già nel carniere, e benché poi in quel manifesto si ricordassero già radici, tradizioni e culture che confluiscono nel Pd, a onta di tutto ciò una robusta commissione per il manifesto dei valori, forte di ben cento unità, s’è dovuta mettere subito al lavoro. C’è da sperare che ora i componenti non facciano capricci, adottando e adattando per l’occasione il noto principio “una testa, un valore”, e che soprattutto non accada che nell’alto consesso qualcuno si alzi per dichiarare non negoziabile un valore che ad altri appaia invece negoziabilissimo.
Non è strano, tuttavia, che sia avvertita come irrinunciabile l’esigenza di redigere l’elenco esaustivo dei valori fondanti. Però è deprimente. Ci si può spiegare con un esempio. Nessun padre ama i figli perché crede nel valore dell’amore filiale, ma casomai è il contrario: dal fatto che un padre ama i suoi figli si può estrarre una cosa come il valore dell’amore filiale. E se c’è bisogno di additare a un padre un simile valore, e se un tale padre ha bisogno di affermarlo, è segno che i figli non li ama poi molto. Il valore è fondato sull’amore, non il contrario – e più in generale esso è sempre fondato su quel certo modo d’essere o di agire che lo realizza, non viceversa. Oppure, se piace di più: nessuna identità si costruisce sopra dei valori, ma la costruzione di un’identità si riflette casomai in una determinata proposizione di valori. Insomma, questi benedetti valori, di cui sembra che nel discorso pubblico non si possa più fare a meno di parlare, non contengono altro che i lineamenti cristallizzati di quelle pratiche di vita, di quei comportamenti collettivi, di quei costumi morali e intellettuali da cui vengono per dir così astratti: cominciare da quelli e metterli a fondamento significa scambiare l’effetto per la causa, il che accade di frequente quando la causa, cioè la cosa che si intende valorizzare, è venuta meno, o si teme stia venendo meno. Ancora un paio di esempi: la famiglia è in crisi, ed ecco spuntare la famiglia come valore; la vita naturale si mescola sempre più con gli artefatti della tecnica, ed eccola proiettata nell’Olimpo dei valori intoccabili – dopo che peraltro è stata abbondantemente toccata, e anzi proprio per quello.
Non è strano, ma è deprimente – dicevamo. Perché un conto è fare buon viso al cattivo gioco di un tenacissimo luogo comune; un altro è impegnarsi a coltivarlo, e dirottare su di esso le risorse politiche di un partito, impegnandolo nella redazione di un catalogo di valori che è già stato scritto, e per la cui riscrittura occorrono, a tenersi larghi, la metà della metà dei membri della commissione, e che soprattutto non può misurarsi con alcun vero nodo politico, essendo la commissione concepita come una sorta di camera di compensazione in cui dare soddisfazioni ideali a problemi di cui non si deve elaborare (in quella sede, almeno) la soluzione reale.
Poiché però una simile considerazione suona troppo pessimista, vogliamo chiudere con un atto di fiducia incondizionato almeno nel lavoro della commissione che elaborerà lo statuto, che di sicuro riuscirà a scovare un simbolo per il nuovo partito.