Quando nel 31 avanti Cristo, a largo di Azio, le navi di Antonio invertirono la rotta e si ritirarono dopo alcuni brevi scontri, il giovane Ottaviano si ritrovò a capo di un impero quasi senza aver combattuto. Era quello l’esito a cui aveva lavorato per quindici anni, con un meticoloso e paziente intreccio politico e militare; sin da quando, cooptato da Giulio Cesare in persona, aveva mosso i primi passi sulla scena politica romana.
Il giovane Ottaviano non era mai stato, né sarebbe stato in futuro, un grande generale. Al campo di battaglia preferiva di gran lunga il gioco politico, allo scontro frontale le ritirate strategiche e il sottile lavoro diplomatico. Ad Azio, quel giorno, Ottaviano si limitò quasi solamente a far vedere in mare le proprie liburne, le navi leggere e veloci che aveva scelto per lo scontro, di fronte alle tradizionali navi di Antonio, lente e pesanti, vecchi arnesi inservibili. Antonio capì l’antifona e si ritirò. Fine. Militarmente era la vittoria della leggerezza contro il vecchiume farraginoso del passato. Politicamente era il capolavoro più limpido mai visto sulla scena romana. Dispiegando una propaganda senza precedenti Ottaviano aveva accerchiato l’avversario, logorandolo in una guerra di immagine prima ancora che militare. Aveva dipinto Antonio, il luogotenente del popolarissimo Giulio Cesare, la più fulgida promessa di Roma, come un pericoloso autocrate bramoso di potere personale; e se stesso, invece, come l’homo novus della politica romana, l’uomo della provvidenza, colui che avrebbe salvato la repubblica e chiuso la stagione dei veleni.
Roma veniva da quasi un secolo di lotte civili. Gli ultimi quindici anni erano stati un tormento: l’uccisione di Giulio Cesare aveva messo fine alla prima repubblica e sconvolto il già precario assetto istituzionale dell’impero, mentre sulla scena politica sgomitavano decine di piccoli leader, ognuno col proprio seguito e con le proprie lobby da tutelare, ognuno convinto di poter essere l’arbitro del potere. I senatori, la vecchia politica, pretendevano il ripristino del quadro istituzionale tradizionale; gli equites, la ricca borghesia agiata, rivendicavano un peso politico adeguato al proprio ruolo sociale ed economico.
Roma sarebbe sprofondata su se stessa. Troppi tentativi erano già falliti, troppe invenzioni giuridiche, riforme istituzionali mancate, triumvirati, dittature. Ogni tentativo di normalizzare la politica si era scontrato con i veti incrociati e con i personalismi di una classe dirigente incapace di cogliere lo spirito del tempo. E lo spirito del tempo era che non se ne poteva più. Della rissa permanente, delle rigide contrapposizioni, dei personalismi esasperati. Finché Ottaviano non trovò la chiave per chiudere la partita e mettere tutti d’accordo.
Se il senato voleva sopravvivere e gli equites volevano comandare, Augusto dette ragione a entrambi: da una parte blandì i vecchi senatori, fece loro credere che lo avrebbero potuto usare per restaurare la vecchia repubblica dal momento che, in fondo, era uno di loro (e perfino Cicerone si illuse a lungo); dall’altra promise agli equites le redini dell’immenso potere economico dell’impero. Augusto si sarebbe fatto garante del patto in cambio della cessione del potere.
Era l’inverso del principio del Gattopardo: bisognava lasciare tutto com’era, affinché tutto cambiasse. Le forme istituzionali repubblicane restarono formalmente in vigore: il principe, anzi, le restituì solennemente al senato; ma tutto il complesso sistema di pesi e contrappesi fu svuotato di significato e per fondare il proprio imperium a Ottaviano bastò avocare a sé poche decisive cariche repubblicane. Fine dei giochi.
Quella vittoria sembrò allora l’esito più naturale e scontato della vicenda, come se il fluire della storia avesse ripreso a filare regolare dopo l’assurda ubriacatura collettiva dei quindici anni precedenti.
S’inaugurava la aurea aetas, l’età dell’oro, la nuova stagione, suggellata dalla costruzione dell’Ara Pacis, monumento alla riconciliazione civile dopo l’età dei veleni. Con il trionfo di Ottaviano, la prima repubblica era davvero tramontata e tutti erano più che contenti del proprio dividendo. Il potere vero, però, era roba sua. Da quel momento fece di tutto per cancellare l’immagine del politico ambizioso e divenne il princeps che governa con il consensus universorum. Prese il nome di Augusto, la cui radice richiamava l’auctoritas in base alla quale governava, e si apprestò a puntellare il proprio potere.
Tornò a Roma da trionfatore e mise mano alla ricostruzione della città. A partire da allora a Roma non ci fu una sola costruzione, un solo restauro, una sola iniziativa pubblica che non portasse il segno della sua personalità, il suo nome o quello di un membro della sua numerosa famiglia. Curò personalmente la costruzione di teatri – ne inaugurò due a distanza di cento metri l’uno dall’altro – di terme pubbliche, acquedotti, portici, mercati e biblioteche. Un intero quartiere, il Campo Marzio, divenne un immenso centro culturale.
E poi le feste e giochi pubblici: “Per lo splendore, il numero, la varietà dei giochi – ci assicura Svetonio – Augusto superò tutti i suoi predecessori”. E perché nessuno potesse accusarlo di sperperare il denaro pubblico, ai magistrati che li allestivano concesse la facoltà di contribuire alle spese di tasca propria. Voilà, aveva inventato gli sponsor. Ripristinò pure l’antichissima tradizione dei Compitalia, la festa dei vicini di casa, nella quale i cittadini dei singoli rioni celebravano il proprio abitare insieme e rinnovavano la propria coesione sociale.
L’organizzazione del consenso fu capillare. Augusto godeva di ottima stampa, il mondo della cultura stravedeva per lui: animati dall’incessante attività di Mecenate, gravitavano intorno alla sua orbita tutti gli intellettuali dell’epoca: Virgilio, Orazio, perfino un vecchio conservatore come Tito Livio. A loro e ai numerosi artisti che frequentavano la sua casa fu affidato il compito di costruire l’immaginario collettivo della nuova società. E siccome Augusto aveva compreso prima e meglio di tutti il potere delle immagini, l’uso dei simboli apparve da subito geniale: costruì la propria casa sul Palatino, accanto al luogo dove si venerava l’antica capanna di Romolo il fondatore; le immagini della nuova stagione affollarono presto con incredibile uniformità le decorazioni dei templi, le pareti delle domus, le tombe. Ed erano immagini – va da sé – pacificatrici e accomodanti. Ordine e pacatezza. Ovunque fu il trionfo del solare ed ecumenico Apollo sull’ebbrezza lacerante di Dioniso.
Tutti i vecchi nemici politici facevano ora a gara per tributare ad Augusto, sinceramente ricambiati, onori e stima. Mostrando di non portare rancore, il princeps non lesinò loro importanti e delicate cariche pubbliche. Nel nuovo stato non c’era più posto per le vecchie divisioni politiche, il nuovo stato esigeva solo amministratori capaci e burocrati zelanti.
La mappa del potere urbano ne uscì completamente ridisegnata. Era nato il modello Roma: una oliatissima macchina di consenso e di potere. Un modello che, semplicemente, piaceva a tutti. E se pure a qualcuno non fosse piaciuto, si poteva star certi che in quel clima culturale nessuno avrebbe avuto alcuna convenienza a dirlo pubblicamente.
Non tutto funzionava per il meglio, certo. Roma continuava a soffrire dei mali di sempre: era ancora una città largamente inadeguata al proprio ruolo, cresciuta per secoli su se stessa, senza un piano regolatore o uno straccio di criterio urbanistico. Nulla a che vedere con la razionale pianificazione delle città ellenistiche dell’Asia Minore, ordinate, ricche e produttive. Ma incapaci, in fondo, di elaborare modelli politici vincenti.
Così a Roma, nonostante le cure del princeps, continuavano a convivere i templi più eleganti e le baracche dei poveracci, opere pubbliche avveniristiche e strade sudice. E poi le continue inondazioni del Tevere a cui quarant’anni di governo della città non furono sufficienti a trovare rimedio: il teatro di Balbo, per dire, gli toccò inaugurarlo su una zattera. Ma si trattava pur sempre di una città di un milione di persone, e provate voi a gestirla una città così, se nel frattempo dovete governare un impero. Perché se a Roma si costruiva il consenso, è nel governo dell’impero che si misurava la grandezza del leader. E quelli di Augusto furono finalmente anni di pace sociale, politica e militare. Stabilizzò i confini, alzò alcune tasse, l’economia riprese a tirare dopo i disastrosi anni delle tensioni sociali. Per il resto si preoccupò dell’ordinaria amministrazione, senza neanche tentare di volare alto. E a tutti andava bene così. Perché la sua Roma era il centro del mondo, il popolo lo amava, il senato si accontentava di salvare la faccia e la ricca borghesia si sentiva appagata, ora che qualche suo esponente poteva fare finalmente una bella carriera politica, ricevere qualche carica prestigiosa, il governo di una provincia o semplicemente il privilegio di eseguire gli ordini dell’imperatore.
Fortunatamente, da molto tempo l’archeologia e la storiografia antica hanno smesso di vedere nel passato modelli da indicare al presente. Tramontata l’idea di una classicità rotonda, perfetta e in sé compiuta, fatta di valori e modelli dati una volta per sempre e buoni ogni momento, l’antichità non ci fornisce più neanche quelli che un tempo si chiamavano codici interpretativi. L’archeologia serve piuttosto a metterci davanti agli occhi delle rovine, a presentarci tutto ciò che è stato grande, che sembrava immortale e che pure oggi è vecchio, morto e sepolto. Letteralmente. E il nostro compito è semmai comprendere quella diversità per lasciarcela alle spalle, riconoscere che quel mondo di valori che pure è stato nostro non lo condividiamo più, abbandonando, dunque, la pretesa di attualizzare ciò che attuale non è.