Il dibattito che si è aperto dopo le primarie non appare adeguato alla portata storica dell’evento. Da parte di molti sembra prevalere la volontà di piegare il voto del 14 ottobre al tradizionale schema dello scontro tra fazioni che domina la cultura politica del giornalismo italiano. Così facendo tanti commentatori rimuovono il dato della partecipazione di milioni di italiani alla fondazione di un partito politico, e riducono quell’evento all’investitura plebiscitaria di un leader che ora dovrebbe “fuggire col malloppo”, assumendo il controllo totalitario del Pd e costruendo un partito senza aderenti, senza correnti, senza fondazioni, senza collateralismi.
Chi volesse del male a Walter Veltroni lo inviterebbe caldamente a seguire questi consigli, perché tale impostazione porta a un partito non solo senza tessere, ma soprattutto senza voti, destinato a durare lo spazio di un mattino. Io invece credo che dopo il 14 ottobre il sogno di dare vita in Italia a un grande partito riformista di massa, capace di chiudere questa interminabile transizione, archiviando la Seconda Repubblica e dando vita a un sistema politico di tipo europeo, sia finalmente a portata di mano. La solidità storico-politica del progetto di fare dell’Ulivo un partito, la forza della leadership di Veltroni e della piattaforma riformista del Lingotto danno al nuovo segretario l’opportunità straordinaria di essere davvero il protagonista dell’apertura di una “nuova stagione” della democrazia italiana.
Già da una prima sommaria analisi del voto delle primarie, da questo punto di vista, emergono molti motivi di conforto, ma anche alcune questioni aperte che non potranno essere eluse. Il primo problema riguarda il ruolo della società civile nel nuovo partito. Il risultato delle primarie dimostra che l’esigenza di attingere nuove energie dalla società italiana non può essere risolto in modo propagandistico attraverso la cooptazione di singole figure emblematiche di alcuni ambienti sociali, perché il loro ruolo politico non potrà che essere marginale o dipendente dalla benevolenza dei loro rispettivi sponsor politici. Occorre perciò costruire sedi e canali attraverso cui chi non fa politica di professione possa acquisire competenze e strumenti per contare. Occorre dunque uno sforzo originale per assicurare la compresenza nel nuovo partito di una robusta dimensione associativa e di una forte apertura verso l’esterno, occorrono nuovi meccanismi di partecipazione democratica e di elaborazione politico-programmatica su base territoriale e tematica. Un partito senza aderenti che si limitasse a chiamare i cittadini ogni cinque anni a ratificare delle liste composte dal proprio gruppo dirigente, invece, non potrebbe che essere un partito di politici di professione, del tutto impermeabile alla società e privo delle risorse per riprodursi attraverso la formazione di una nuova classe dirigente. E questo rimanda alla seconda questione posta dal voto di domenica: la democrazia.
Una partecipazione così massiccia esprime una fortissima domanda di democrazia. Si tratta cioè di un voto esigente, cui rispondere archiviando il modello cooptativo tipico dei partiti della Seconda Repubblica e ripristinando dei meccanismi di selezione delle classi dirigenti che non possono esaurirsi nel modello adottato dalle primarie del 14 ottobre. Occorre puntare (ha ragione Arturo Parisi) a “un partito di tesserati e non di tessere”, premiando la partecipazione diretta rispetto alla delega, cosa ben diversa dall’idea bizzarra di un partito democratico senza iscritti. Un’idea d’altronde incostituzionale, perché la facoltà di associarsi liberamente in partiti, prevista dall’articolo 49 della Costituzione, è un diritto che intende garantire i cittadini proprio dai rischi di una politica oligarchica dominata da circoli ristretti e chiusi.
Per quanto riguarda poi il tema del pluralismo, la parola d’ordine del no alle correnti può risultare popolare in tempi di antipolitica dilagante, ma è evidente che un grande partito come il Pd non potrà essere diretto con il meccanismo del centralismo democratico. Tralascio il caso estremo di un partito senza aderenti, che non potrebbe che essere una federazione di correnti, lobby e gruppi di pressione di vario tipo, cioè in ultima istanza una somma di diversi partiti più o meno palesi, e mi limito al modello dei “normali” partiti europei. Tra questi, solo i partiti aderenti al movimento comunista internazionale vietavano le correnti. Tentare di applicare quel modello al Pd appare quanto meno irrealistico e avrebbe come unico effetto quello di ostacolare la coesione e l’unità d’azione del partito. Il problema non è dunque se avere le correnti (che d’altronde già esistono) ma come regolarle e come evitare che esse riproducano le appartenenze del passato, riflettendo unicamente la fedeltà a questo o quel leader. Occorre insomma saper dare vita a un pluralismo articolato intorno alle cose e alle idee (cioè ai programmi e alle visioni del paese) e non alle persone o ai territori. Un pluralismo organizzato democraticamente e capace di far crescere il Partito democratico favorendo l’elaborazione di una cultura politica e la formazione di una classe dirigente adeguate alle sfide che l’Italia ha dinanzi a sé. Un pluralismo che incentivi l’unità del partito e la solidarietà del suo gruppo dirigente proprio perché fondato su regole certe.
Solo così, solo cioè se l’occasione del voto del 14 ottobre non verrà sprecata, l’Italia vedrà finalmente la nascita di un grande partito riformista nazionale, popolare e democratico. Se parallelamente alla sua edificazione verrà percorsa la strada delle riforme costituzionali e di un sistema elettorale che, come quello tedesco, consenta al Pd di dispiegare tutte le sue potenzialità, sarà finalmente possibile edificare una moderna democrazia dell’alternanza fondata sulla competizione virtuosa per la soluzione dei problemi del paese tra grandi partiti a vocazione maggioritaria.