Le spiegazioni della sconfitta del fronte del Sì al referendum sulla fecondazione assistita hanno oscillato tra due filoni interpretativi principali: uno organizzativistico (il logoramento dello strumento referendario, la mancanza di informazione, la difficoltà dei quesiti) che viene rispolverato a ogni referendum perduto; l’altro più legato allo specifico del tema proposto (il condizionamento della Chiesa, la presunta arretratezza e mancanza di autonomia del Mezzogiorno) ma più pericoloso, perché apparentemente dettato da una deriva manichea che tante volte coglie segmenti della sinistra italiana all’indomani di una sconfitta.
Ma al di là delle analisi, quello che più ha colpito è l’entità della sconfitta: la scelta di partecipare al voto è stata compiuta appena da un italiano su quattro. E’ un dato da non sottovalutare, soprattutto perché la geografia del voto restituisce una fotografia dell’Italia che al centrosinistra non può non apparire allarmante.
Su cosa si è votato il 12 Giugno? Sulla libertà di ricerca e di sperimentazione certo, come sui diritti della donna e la laicità dello stato. Ma la verità è che per il modo in cui si è sviluppato ed è cresciuto il dibattito, si è votato innanzi tutto sulla “modernità”. Dietro a quei quesiti c’era infatti un nodo che riguardava qualcosa di più profondo: una concezione delle libertà individuali, un’idea dello sviluppo del paese basato sull’innovazione e sulla ricerca, un’idea di crescita e di modernizzazione dell’Italia. Né si può dimenticare che in questa battaglia si è schierata la parte più avanzata delle classi dirigenti italiane, dai Ds a Gianfranco Fini, dai grandi quotidiani ai premi Nobel. Un insieme di forze che si è dimostrato in grado di mobilitare, su una battaglia decisiva, appena un italiano su quattro.
A seguire le analisi di Renato Mannheimer, se le forze che hanno scelto “il trucco” dell’astensione avessero votato No, probabilmente avrebbero vinto. Noi non ne siamo convinti, perché oltre a una quota di astensionismo fisiologico riteniamo che buona parte di chi si è astenuto lo ha fatto per il più naturale dei motivi: semplicemente non si era formato una sua opinione, non era o non si sentiva sufficientemente convinto, informato, sicuro. Cosa sarebbe accaduto nella testa di queste persone se la campagna fosse stata condotta diversamente, in un’alternativa secca tra Sì e No, in una battaglia più aspra e più “politica”, non è dato sapere. Del resto, come ha notato acutamente Marco Beccaria, se al referendum sul divorzio o sull’aborto il fronte del Sì (quello cioè dei contrari alle attuali leggi in materia) avesse deciso di astenersi, il quorum sarebbe mancato anche allora. Certo è comunque che in una sfida tra Sì e No, anche sulla fecondazione assistita il risultato non sarebbe stato affatto scontato, né improbabile la vittoria dei favorevoli alla legge 40.
Ma allora, se è vero che il centrosinistra prima di ogni altro si pone l’obiettivo di modernizzare l’Italia – dall’economia al sistema politico, dalla cultura all’amministrazione pubblica – viene da chiedersi come potrà farlo una volta tornato al governo, visto che al momento un blocco sociale di riferimento per questa missione ancora non c’è.
C’è invece, come è stato notato da molti, uno scollamento tra elite e popolo. Un tema antico, che la geografia del voto sembra riproporre, insieme al tema gramsciano della divisione tra città e campagna. A proposito del fallimento del Partito d’Azione nella battaglia sulla questione agraria, scriveva Gramsci, la ragione fu che esso “si limitò a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la quistione della Costituente”. E ancora: “La non impostazione della questione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa. (…) Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici”.
Difficile trovare parole più efficaci per criticare la scelta dello strumento referendario e tanta parta della retorica che a esso inevitabilmente si è accompagnata. Per fare una battaglia in nome della modernità è stato scelto lo strumento peggiore, favorendo il coagularsi di una grande coalizione della paura, che ha fatto leva sulla diffidenza verso gli scienziati e il progresso, sulla naturale alleanza tra le forze della chiusura e dell’isolamento dall’Europa e dalla comunità scientifica, in una sorta di rabbioso protezionismo culturale. Un referendum che ha dimostrato ancora una volta a cosa porti un centrosinistra fondato sul principio della divisione dei ruoli tra sinistra e centro: alla sconfitta e alla paralisi sulle posizioni più conservatrici, che è poi la negazione di ogni possibile ipotesi riformista. Per scomporre questo blocco e rendere politicamente realizzabile la strada dell’innovazione, si tratti di ordini professionali o di concorrenza nel sistema creditizio oppure ancora di valori e fecondazione assistita, l’unico percorso possibile è quello della riunificazione dei diversi filoni del riformismo italiano in un soggetto che abbia la forza e la capacità di imporre quei temi nella società, prima ancora che nelle urne. Una strada che nessun autentico riformista che abbia a cuore la crescita economica, civile e culturale del paese può oggi permettersi di abbandonare a cuor leggero, perché non può permetterselo il centrosinistra. Ma soprattutto, in ultima analisi, l’Italia.