La crisi finanziaria connessa alla pratica dei mutui facili presenta caratteri inediti: da un lato – per ora – genera più inquietudine che perdite; dall’altro, investe più intensamente il nucleo centrale del sistema finanziario globale che non le sue diramazioni periferiche.
Basta scorrere l’elenco delle banche maggiormente implicate per vedere che i rischi più alti li corrono le principali case inglesi e americane. E basta tenere una sommaria contabilità degli interventi da “prestatore di ultima istanza” delle principali banche centrali per capire come – questa volta – non se ne esca esibendo la punizione esemplare di qualche pur importante attore del sistema, per ripartire subito dopo con il “business as usual”.
Quella che è iniziata è invece, come ha detto Ben Bernanke, una lunga fase di incertezza profonda senza precedenti, proprio perché la crisi ha origine nel centro del sistema: in quegli Stati Uniti che sono contemporaneamente immersi nel dibattito drammatico su una guerra cui non riescono a dare una fine.
Le due cose, infatti, sono collegate. Iraqi Freedom (all’inizio si chiamava così) doveva terminare già nel 2004; un anno dopo l’inizio del conflitto, a Iraq stabilizzato, si sarebbero dovuti ritirare – con enorme sollievo del bilancio federale – 100 mila soldati su 130 mila. Le operazioni belliche avrebbero dovuto presto lasciare il passo a una fase –concertata in sede Onu con europei, russi e cinesi – di remissione del debito iracheno, sfruttamento del petrolio del paese occupato, grandi appalti per la ricostruzione delle città e delle infrastrutture essenziali. Come effetti collaterali ci sarebbero dovuti essere: calo del prezzo del greggio, pace tra Israele e Palestina (a condizioni ben diverse rispetto a quelle del processo di Oslo) e l’avvio di un robusto “piano Marshall” per il Medio Oriente. Quindi il famoso “effetto domino”: stabilizzazione, democrazia e sviluppo per i paesi dell’area, Arabia saudita, Egitto, Iran e Pakistan in testa. La guerra guerreggiata era un azzardo che doveva durare poco, per lasciare il posto a una nuova duratura fase di egemonia americana militarmente corazzata.
La guerra, invece, non è ancora finita. E nessuno di quegli obiettivi appare facilmente realizzabile. Il “progetto della guerra”, però, ha dato corpo a una “economia di guerra” che negli ultimi anni ha informato di sé l’economia globale. Un meccanismo che ha consentito di finanziare il conflitto, dare impulso alla crescita americana e impedire che i debiti accesi per pagare le operazioni belliche mettessero in pericolo l’apertura dei mercati finanziari realizzatasi nel decennio precedente.
L’insorgenza irachena, iniziata ad aprile del 2004, che ha impantanato l’Armata e reso definitivamente instabile il paese, ha dato il via alla ricerca, sempre più affannosa, di una “exit strategy”. Sul terreno economico, parallelamente, l’ostruzione del meccanismo che doveva condurre dall’ “economia di guerra” a quella della “ricostruzione” per mezzo della vittoria ha lasciato il posto alla dottrina del “soft landing”, l’atterraggio morbido, il disinnesco graduale di un meccanismo che alimenta enormi squilibri.
L’incertezza politica sull’esito delle prossime elezioni presidenziali e la vaghezza finora dimostrata dalle dottrine politico-militari dei principali candidati sono il principale riflesso di questa pericolosissima impasse che si riverbera sull’economia.
I mutui subprime non sono distorsioni, celate negli anfratti del mercato finanziario, ma uno sviluppo importante di quell’innovazione finanziaria basata sui prodotti derivati che, insieme al boom della comunicazione telematica, ha consentito all’economia statunitense di reagire alla pesante recessione del 1992 riconquistando slancio e centralità, a costo di creare una gigantesca bolla finanziaria la cui esplosione, nel 2000, ha fatto dimezzare o quasi il valore delle borse di tutto il mondo. Dopo quella crisi, e ancor più dopo l’11 settembre, l’accensione facilitata di mutui sulle case è stata strumento essenziale per rilanciare i consumi e la crescita americana, è stata una delle colonne portanti dell’ “economia di guerra” che lì ha preso avvio.
Le leve con cui l’amministrazione Bush ha riportato la crescita al 4 per cento annuo, in un paese che poteva risultare seriamente lesionato dall’attentato alle Torri Gemelle e dalle sue conseguenze, poggiano su debiti di tre tipi diversi. Debito pubblico: con l’imponente espansione della spesa – in primo luogo militare – e ripetute forti riduzioni del carico fiscale. Debito delle famiglie: con la decisione delle principali istituzioni finanziarie americane di erogare crediti ai privati, garantendo con ipoteche immobiliari (anche senza ulteriori garanzie) i mutui necessari a finanziare acquisti immobiliari e d’altro genere. Debito estero: un enorme squilibrio di bilancia dei pagamenti ripianato, mese dopo mese, dalla massiccia sottoscrizione di titoli del tesoro americano da parte dei paesi emergenti, Cina in testa. Si è così prodotto l’ancoraggio del renminbi al dollaro, che nel frattempo si svalutava di oltre il 30 per cento nei confronti dell’euro: la cosiddetta nuova Bretton Woods tra Usa e Cina.
Questo meccanismo, ben irrorato di liquidità, con tassi reali a lungo negativi (e comunque stabilmente sotto il 2 per cento), a tutela di un sistema finanziario fortemente esposto, ha permesso agli Stati Uniti di crescere al 4 per cento mentre l’Europa arrancava, e di indebitarsi senza perdere il controllo sul dollaro. Ha prodotto però anche squilibri commerciali e produttivi che, alla lunga, non sono sostenibili dagli stessi Stati Uniti; da qui le forti pulsioni protezioniste nel dibattito pubblico più recente. Prolungandosi inoltre il conflitto e quindi la necessità di provvedere sine die al finanziamento di una missione militare assai onerosa (e si è accresciuto anche l’impegno in Afghanistan), l’Amministrazione Bush ha deciso, insieme al nuovo Chairman della Federal Reserve, di limitare l’esposizione verso l’estero per correggere (per quanto poessibile) le distorsioni, attenuare le pressioni sul dollaro e spegnere i focolai di inflazione.
E’ iniziato il difficile cammino che dovrebbe condurre all’atterraggio morbido, sentiero che corre lungo un asse principale: il lento, costante rialzo concertato dei tassi di interesse internazionali. Una marcia che porta con sé una serie di corollari: il riequilibrio dei saggi di crescita tra Usa ed Europa, qualche accenno a una rivalutazione del renminbi, la condivisione dei rischi di insolvenza. Sono stati pressanti infatti gli inviti rivolti alle banche e ai governi di tutto il mondo dal Segretario al Tesoro Paulson, in varie missioni ufficiali, a condividere le sofferenze del sistema finanziario americano sottoscrivendo quote di prodotti finanziari derivati da mutui subprime.
L’aumento dei tassi di interesse, infatti, cambia le convenienze tra finanza e mattone, con il duplice effetto di far cadere il valore delle case (messe a garanzia dei debiti) e di far aumentare la rata dei mutui (cosa che fa diventare insolventi molti clienti sub-primari). Data l’estensione di questi mutui e la moltiplicazione dei loro effetti attraverso il meccanismo dei derivati, si produce un esteso pericolo di insolvenza che genera incertezza e fa ristagnare la liquidità. In realtà non “mancano i soldi”, ma la liquidità non è mai garantita dal semplice surplus di denaro. E’ invece il prodotto di un funzionamento sano delle istituzioni e dei mercati che consentono al risparmio, o al credito, di tradursi in investimenti e produrre ricchezza.
Ma come alla guerra non si è riusciti a dare una strategia d’uscita, dividendo equamente i pesi tra i principali attori della comunità internazionale, così in economia, anche per gli effetti prodotti sulle relazioni internazionali da quella sfortunata impresa militare, l’atterraggio morbido – che richiede grande cooperazione tra paesi diversi sulla base di un interesse comune alla stabilità – sembra lontano. Anche il rischio finanziario, stando alle prime evidenze, non sembra sia stato distribuito a sufficienza nei portafogli degli investitori di tutto il mondo.
Cina e Russia sembrano piuttosto intenzionate a capitalizzare gli effetti imprevisti di una guerra che avevano avversato per la propria politica di potenza: la prima sull’onda dell’esorbitante valore raggiunto dai prodotti petroliferi, la seconda con l’investimento diretto nei mercati internazionali dei prolungati surplus commerciali (i cosiddetti fondi sovrani). L’Europa ha assunto una funzione nevralgica sullo scenario internazionale grazie all’euro, divenuto fortissimo per la strutturale debolezza del dollaro; ma sembra prigioniera di questo strumento straordinario e delle regole “antipolitiche” che si è data per governarlo, regole che ne fanno una “valuta residuale”, il cui valore è il risultato della forza o della debolezza delle altre.
Oggi, a cospetto di una evidentissima crisi politica, prima ancora che economica, del quadro internazionale, la Bce fa l’interesse di tutti collaborando alla stabilità: rialza i tassi o li ferma di concerto con la Fed, presta denaro alle banche per evitare le crisi, ma è l’Unione europea che dovrebbe entrare nell’età adulta ed esercitare finalmente, in modo concorde, le responsabilità politiche che le derivano da una forza economica da molti insospettata.
Il nostro destino economico e civile resterà intrecciato, ancora per molto, a quello degli Stati Uniti. E oggi, dinnanzi a questa nuova, seria crisi della grande potenza americana, non si può cercare la rivalsa, né restare passivi ad aspettare che gli Usa si risollevino per poter andare loro appresso. Bisogna che l’Europa aiuti se stessa e l’America a ritrovare la via della crescita lungo sentieri più solidi: investimenti, tecnologia, capitale umano, commercio equilibrato, fluttuazione limitata delle principali valute, cooperazione finanziaria, migliore distribuzione del reddito e dei diritti.
Per imboccare questo sentiero occorre far prevalere una posizione politica espressamente democratica e archiviare l’illusione che si possa costruire un nuovo ordine internazionale attraverso l’agire unilaterale della forza. Per questa battaglia l’Europa ha dalla sua parte, oltre a una forza economica che deve imparare a far valere al tavolo delle decisioni politiche, anche l’autorità morale (riconosciuta in gran parte del mondo) che le deriva dal non aver condiviso il “progetto della guerra”, eppure dall’aver saputo sopportare, con buona volontà, le avversità che le ha causato l’ “economia di guerra”.