Doveva essere l’estate di Savino Pezzotta. Il vulcanico bergamasco aveva attaccato più volte il Partito democratico: “Là non c’è posto per noi cattolici”. Doveva essere l’estate del suo movimento, figlio del referendum sulla fecondazione assistita e del Family Day del 12 maggio. Doveva essere la sua estate e quella del suo partito: il Partito di Dio. O forse, più semplicemente, il Partito del Cardinale, del cardinal Ruini. In questi giorni Pezzotta è tornato a parlare del suo progetto, annunciando convegni e manifesti, nuove alleanze e grandi manovre. Ma anche il suo piano, come tanti (troppi) altri progetti di riaggregazione centrista, dipende da una nuova legge elettorale ancora da scrivere.
Atteso da molti come l’angelo sterminatore del malandato bipolarismo italiano, Pezzotta però si è visto poco nell’infuocata estate italiana. L’accelerazione elettorale del Partito democratico da un lato, la nascita mediatico-notarile del Partito della libertà dall’altro, all’improvviso, gli hanno tarpato le ali. Stretto tra Pd e Pdl, il pD ha passato l’estate in letargo. Pezzotta ogni tanto ha attaccato apparati e correnti, ma non ha spaventato nessuno. Parlando di fine della seconda Repubblica ha avvicinato Clemente Mastella e Pier Ferdinando Casini, ma non è riuscito a costruire un progetto credibile. Non basta un vago malessere a generare un soggetto politico. Non basta per fare un partito, e alla lunga nemmeno un movimento.
La solitudine di Pezzotta ha una ragione profonda. La solitudine del braccio laico rispecchia la malinconia della mente ecclesiale. Camillo Ruini, infatti, non è mai apparso così solo, quasi marginale, nella vita pubblica ed ecclesiale del nostro paese. La parabola dell’ex capo del sindacato bianco rispecchia quella dell’ex capo della chiesa italiana. Sta finendo il tempo del sindacato come riserva per la politica e sta finendo anche quello delle riserve preconcette dei vescovi italiani verso la politica di questo paese (e in specie verso la politica dell’Ulivo). Non si tratta di un cambio di linea, nessun rovesciamento delle alleanze. E’ semplicemente l’assunzione di un’altra prospettiva e, conseguentemente, di altre e diverse responsabilità. La presidenza del cardinal Ruini ha reso la Conferenza episcopale italiana un soggetto politico (ed economico, va da sé). Un’idea veterotemporalista di chiesa come forza tra altre forze, parte tra le parti. Un’idea forse giustificata dalla scomparsa del “braccio secolare”, ovvero della Dc. E così per quindici anni la chiesa italiana si è fatta “braccio”, ha cercato e ottenuto un’autorevolezza, un prestigio intellettuale e morale – in questa forma – mai conseguiti prima. Ha lanciato la sfida alla società secolarizzata con il “Progetto culturale”, puntando alla riconquista di uno spazio etico tale da restituirle l’egemonia, il consenso convinto al suo magistero da parte della maggioranza degli italiani. Non potendo più essere religione di stato, il cattolicesimo italiano sotto la guida di Ruini ha cercato di essere, almeno, religione della nazione.
Esemplare a questo proposito il passaggio della sua omelia in occasione dei funerali dei caduti di Nassirya: “Non fuggiremo davanti ai terroristi, anzi, li fronteggeremo con tutto il coraggio, l’energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo”. Alla preoccupazione del pastore di anime che esorta a non odiare si accompagna un’identificazione piena e incondizionata con il sacrificio dei militari italiani, un’identificazione in ultima analisi con gli obiettivi e le finalità della stessa missione militare. Questa cultura della funzione nazionale della chiesa italiana ha convissuto con lo slancio universalistico e “pacifista” – se così si può dire – di Giovanni Paolo II, da una lato mai davvero interessato alle cose italiane, dall’altro uso, date le sue origini, sia a concepire la chiesa come un soggetto politico, sia a identificare religione e nazione.
L’elezione di Ratzinger al soglio pontificio, i suoi dialoghi con Marcello Pera, il suo orgoglio filosofico tedesco lasciavano presagire un’accelerazione su questa linea, fino ad arrivare a identificare il cristianesimo non più solo con la nazione, ma con l’Occidente. Quello che dobbiamo constatare è invece, come si diceva, un cambio di prospettiva.
Se Woijtyla aveva lasciato ampi margini alle conferenze episcopali, con il nuovo Papa assistiamo a un radicale cambiamento di rotta. Interlocutore dei governi nazionali non deve essere la conferenza episcopale del paese, ma la Santa sede. Se Woijtyla e Ruini erano i campioni del primato della politica, Ratzinger e Bertone seguono un’altra strada: il primato della diplomazia. Se Woijtyla e Ruini avevano incoraggiato i movimenti ecclesiali laicali come avanguardie nella battaglia per l’egemonia, Ratzinger e Bertone sembrano entrati in una prospettiva che non punta all’egemonia, ma al recupero di una dimensione di missione e testimonianza per la chiesa tutta: laici e consacrati.
Significative a questo proposito sono le nomine in Curia. Entrano diplomatici ed esponenti del clero regolare. Il salesiano Bertone come Segretario di Stato, il gesuita Lombardi alla sala stampa in sostituzione del numerario del Opus Dei Navarro Valls, il francescano Hummes alla congregazione del Clero, il diplomatico indiano Dias all’evangelizzazione dei popoli. I due nuovi sostituti alla Segreteria, poi, Filoni e Mamberti, sono esperti di Cina, Medio Oriente, mondo arabo. Insieme a Dias costituiscono una squadra che in Curia copre gran parte del continente asiatico e l’Africa sahariana: luoghi dove per i cristiani è possibile solo la missione, l’evangelizzaizone, la testimonianza. Non certo l’egemonia sulla società, la politica, la cultura. Così la chiesa di Ratzinger, seppure in modo a volte non immediatamente percepibile, sembra dunque perseguire la sua vocazione di servizio, il suo annuncio di salvezza, la sua missione universale lungo una prospettiva lontana, molto lontana, da quel Partito di Dio che per breve tempo apparve a tanti come la principale novità della politica italiana.