E così la lista unitaria non si farà, i partiti del centrosinistra correranno nel proporzionale ognuno con il proprio simbolo e il progetto di una nuova formazione politica che riunifichi e dia forza ai tre principali filoni del riformismo italiano è rimandato a data da destinarsi. Male. Massimo D’Alema, Piero Fassino, Arturo Parisi e Romano Prodi si sono riuniti giovedì scorso e hanno deciso che bisognava evitare la scissione della Margherita, rilanciare le primarie e abbandonare la lista Uniti nell’Ulivo. Trattandosi di persone che fino a oggi si erano spese tutte e non poco per il percorso unitario, devono avere avuto una solida ragione per lanciare il contrordine. Noi non sappiamo quale sia questa ragione, ma le vicende delle ultime settimane autorizzano qualche verosimile ipotesi.
La partita in corso nel centrosinistra non riguardava più la lista unitaria, ma la leadership della coalizione. Uniti nell’Ulivo era solo il primo bersaglio, il vero obiettivo era Romano Prodi. Lo testimoniano gli intensi scambi tra una parte del centrosinistra e gli uomini del cardinal Ruini (tra i quali molti autorevoli dirigenti del centrodestra, pronti a entrare nella Margherita un minuto dopo la scissione e l’uscita dei prodiani), nonché il fitto scambio di cortesie tra una parte dell’establishment industriale e quel Francesco Rutelli che non ha esitato ad attaccare personalmente gli alleati dei Ds per non avere difeso a sufficienza – a suo dire – i membri del patto Rcs dai tentativi di scalate. Raccogliendo così e facendo proprie accuse formulate al convegno dei giovani di Confindustria da Diego Della Valle (membro del patto e uomo vicinissimo a Montezemolo) rilanciandole in un’intervista sul giornale della Rcs, che non per nulla sta per Rizzoli – Corriere della sera. Questa dunque la sequenza dei fatti: la Margherita ospita a Frascati Montezemolo e altri pezzi del mondo industriale in un seminario convocato per definire le proposte economiche del partito (in aperta competizione con la Fabbrica prodiana), una lunga inchiesta del Corriere economia viene ripresa quasi alla lettera dal Diario di Enrico Deaglio per sostenere il legame tra Massimo D’Alema e Stefano Ricucci, quindi Rutelli rilascia la sua intervista per denunciare l’omissione di soccorso diessina nei confronti della Rcs.
Nel frattempo si susseguono voci, pettegolezzi e veleni tesi ad accreditare la tesi secondo cui Prodi sarebbe ormai sempre più isolato, tra i partiti del centrosinistra come tra i loro elettori, nel mondo economico come nella società. Per fermare questo gioco al massacro, D’Alema Fassino Parisi e Prodi hanno fatto quello che hanno fatto. Bene? Male? Difficile dirlo ora, perché con ogni evidenza la partita è ancora ben lungi dall’essere terminata. Ma il modo in cui è stata giocata dagli attori scesi in campo, dai giornali degli imprenditori alle riviste dei gesuiti, non fanno che rafforzare in noi la convinzione su quale sia oggi l’interesse prioritario del paese: la tenuta del bipolarismo e l’autonomia della politica dalle lobby, dai circoli di potere economico e finanziario, dalla compagnia di giro degli intellettuali a contratto; l’esigenza di un partito riformista capace di raccogliere tra il 30 e il 35 per cento dei consensi e di porre le scelte fondamentali del paese all’interno di un meccanismo democratico. La malattia della democrazia italiana ha radici profonde, in un paese in cui i grandi giornali si spartiscono meno di due milioni di lettori, in cui i grandi industriali di fatto sopravvivono solo in regime di monopolio e in cui le vicende della lotta politica sono determinate da leader politici che non rappresentano nemmeno un quinto degli italiani. La malattia del paese sta innanzi tutto nel tentativo di deciderne le sorti da parte di capitalisti senza soldi, politici senza voti e giornali senza lettori. Un gioco in cui i primi chiedono di essere protetti da quelle stesse regole del mercato di cui si riempiono la bocca al mattino, i secondi manovrano per impedire il formarsi di partiti capaci di raccogliere maggiori consensi e ridurre il loro potere posizionale, gli ultimi orchestrano campagne stampa a sostegno dei rispettivi padroni. La logica del monopolio e della protezione dalla concorrenza, valida per i voti come per le azioni, rappresenta perfettamente il declino di un paese sempre più chiuso in se stesso. Un’Italia fatta di spezzoni di establishment in lotta per la sopravvivenza che hanno perduto ogni ambizione di proiettarsi all’esterno e che non a caso sanno difendersi solo attraverso l’intrigo e il pettegolezzo, nel disperato tentativo di puntellarsi a vicenda.
In questo quadro, occorre innanzi tutto difendere la leadership del centrosinistra, non per difendere Romano Prodi, ma per difendere l’autonomia della politica. Occorre difendere il bipolarismo e occorre continuare a battersi perché presto o tardi, anche la gracile democrazia italiana possa reggersi su due solidi e contrapposti partiti politici, capaci di rappresentare realmente le diverse ipotesi di cambiamento. Se vogliamo che l’ultima parola in materia, in questo paese, spetti ancora agli elettori.