La crisi del cinema italiano è la crisi della società italiana, ha scritto (in estrema sintesi) Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera. La crisi del cinema italiano è la crisi di un linguaggio cinematografico, ha scritto (in estrema sintesi) Eugenio Scalfari su Repubblica. E naturalmente non si può non dare ragione e torto a entrambi. Per farlo, però, si finisce risucchiati in questioni di critica estetica, che attengono al modo in cui, in generale, si giudica di una forma d’arte. L’uno pone l’accento sui contenuti, l’altro sulla forma. L’uno è interessato a considerare il cinema italiano come un documento storico, e a legarlo quindi al contesto con cui è inevitabilmente in rapporto; l’altro intende invece mantenergli il valore di autonoma espressione artistica. Appunto: hanno ragione e torto entrambi, perché non c’è opera d’arte che non possa essere presa in considerazione in entrambi i modi. E siccome non ci sono più filosofi che arrischino la sintesi, ci si potrebbe contentare di accostare l’una opinione e l’altra, rilevare che le cause sono molte, e stare pilatescamente alla concorde constatazione del fatto, che il cinema italiano è in crisi.
E invece è il caso di rimandare ad altra sede le giustificazioni di teoria estetica, e provare a discutere il merito. Orbene, a meno di non pensare che il genio artistico, come lo spirito, soffi dove vuole, bisogna pur cominciare supponendo che una qualche relazione fra stato della società e stato dell’arte vi sia. Scalfari però fraintende il modo in cui Galli della Loggia stabilisce la relazione, quando adduce a titolo di controesempi società moralmente decadenti in cui l’arte raggiungeva tuttavia livelli eccelsi. La colpa è dell’espressione “crisi dei valori”, nella quale (come molti, purtroppo) incappa. È vero che con essa oggi si suole spiegare quasi tutto, ma Galli della Loggia aveva avuto l’accortezza di parlare piuttosto della necessità di “una nuova ragion d’essere, di un nuovo senso di sé, di un nuovo rapporto con la realtà”, non di una crisi di valori o peggio di un deficit di moralità, come se le società costumate producessero buoni film, e quelle corrotte e birbaccione no.
Più che un valore, il “senso di sé” sembra essere una virtù – però nel senso machiavelliano. E cioè una forza. Il cinema italiano non ha più una sua forza, né se la può dare, perché non ce l’ha la società italiana che in esso si esprime (fatta salva ogni possibile eccezione: risparmio al lettore liste di nomi e di film, ai quali aggrapparsi per non dispiacere nessuno e non apparire troppo nostalgici). Galli della Loggia ha poi ragione nell’indicare nell’ideologia italiana un punto di forza della grande stagione del cinema neorealista, perché è vero che possedere una tempra ideologica è, per il cinema e per un paese, importante quanto avere carattere per un vino, per un volto o per un luogo. Ogni popolo ha la sua metafisica, si diceva una volta, oppure i suoi miti, ed è vero che nel corso del Novecento è stato il cinema a fornirne, all’Italia e non solo all’Italia.
Ma poi Galli della Loggia aggiunge che il declino si dà nel momento in cui l’Italia approda alla democrazia, abbandonando il populismo del vecchio impasto ideologico. Il cinema americano andrebbe invece tuttora a gonfie vele, perché “in virtù della disposizione allo straordinario, all’avventuroso, e insieme al quotidiano, con la semplicità della sua ispirazione etica, con il suo favore per il punto di vista dell’uomo comune contro ogni intellettualismo, trova nella democrazia il suo ambiente ideale”. Qui il ragionamento di Galli della Loggia è molto più opinabile. In primo luogo, in esso non vengono in alcun modo fatte entrare le forze economiche e la potenza politica degli Stati Uniti, mentre è difficile negare che queste diano una mano assai robusta alla penetrazione mondiale del cinema americano: nelle sale cinematografiche e nell’immaginario collettivo. E a meno di non tornare agli sbuffi capricciosi dello spirito, non si può dire – come qualcuno fa – che in verità tutto dipende dal fatto che gli sceneggiatori degli Studios sanno raccontare, mentre gli europei e in particolare gli italiani chissà perché non sanno più farlo. Accusare l’intimismo e l’intellettualismo del cinema europeo è scambiare l’effetto per la causa.
In secondo luogo, non è chiaro perché la democrazia sarebbe, in generale, l’ambiente ideale per l’avventuroso e il quotidiano, e non invece per le passioni civili o le tensioni ideologiche. Dal ragionamento di Galli sembra peraltro conseguire che globalizzazione, democrazia e tramonto delle ideologie siano la stessa cosa, o abbiano fra loro un rapporto necessario. E invece se la democrazia deve (come deve) rimanere l’orizzonte della politica occidentale, occorre pure che essa rimanga una parola disputata, il cui significato sia cioè conteso, a cui bisogna dunque che un paese (e la sua cinematografia) senta l’esigenza di dare sempre nuovo senso. In effetti, è difficile sottrarsi all’impressione che, sul piano ideologico, la forza degli Stati Uniti e la potenza del suo cinema stiano proprio nella capacità di investire l’ethos democratico vuoi dei toni della denuncia vuoi della retorica quasi religiosa della missione, ma mai di considerarlo semplicemente come un dato privo di senso, e cioè di direzione e di scopo. Dal momento poi che stiamo facendo questione di forza o di debolezza, non si può non rilevare che è segno di debolezza anche suggerire (come sembra fare Galli della Loggia) che “l’Occidente globalizzato”, in cui l’Italia starebbe finalmente entrando, sia una sorta di Moloch ostile, alieno e immodificabile, e che dunque non possa che essere subito passivamente, il che comporterebbe per l’Italia una lenta morte civile, l’agonia della sua cultura e l’impossibilità di inventarsi un cinema nuovo.
Ma poiché, lo si è detto, lo spirito non soffia affatto dove vuole, non è al genio italico, o allo stellone, che ci stiamo appellando, per sperare in future rinascite. Intervendo nel dibattito sul cinema italiano, Marco Bellocchio ha scritto una cosa molto sensata. Non una diagnosi (tardiva e malinconica, come spesso le diagnosi senza prospettiva) ma una prognosi, che riguarda questa volta la forma, il mezzo e anche il linguaggio cinematografico. Ha scritto che “le nuove identità e le nuove immagini” non le daranno più le vecchie pellicole, ma “le migliaia di film di migliaia di registi che si possono vedere in Internet a costo zero”. Credo che Bellocchio veda giusto. Con una precisazione, però: che la rete somiglia molto più a un’enorme discarica a cielo aperto, che non a un’Accademia di giovani talenti. Proprio per questo però Bellocchio ha ragione: perché ci vuole del carattere per pescare nella rete, e la “forza” di illudersi. E poiché Bellocchio si illude pure nel credere che nella rete tutto si fa “a costo zero”, per virtù dunque del genio e non anche di politiche, di investimenti, di infrastrutture, di competenze specializzate, di ricerca e sviluppo, possiamo tornare ad affermare che, anche riguardato da questo lato parecchio globalizzato, un rapporto tra stato dell’arte e stato della società – del suo sistema economico e del suo ambiente politico – c’è. Eccome se c’è. E bisogna lavorarci su.