E’ difficile la comparazione tra l’azione della Bce e quella della Fed nella recente crisi dei mercati: troppo diverse le “condizioni al contorno”, gli assetti operativi, il quadro istituzionale. Tuttavia, dal modo in cui le due istituzioni si sono mosse, è possibile ricavare alcune interessanti lezioni.
Forse ancora memore dell’infausta esperienza del ’29 (“i tassi di interesse vanno alzati”, diceva allora la vulgata corrente, sperando invano di stimolare la creazione di risparmio e favorire così il superamento della crisi), la Fed è intervenuta “a piedi uniti”, anche sui tassi.
Uno degli elementi che caratterizzano la crisi attuale è sicuramente la mancanza di fiducia. L’utilizzo su larga scala dei prodotti derivati non annulla il rischio, ma “semplicemente” lo redistribuisce. In teoria il rischio verrebbe così allocato spontaneamente presso i soggetti maggiormente attrezzati per gestirlo; in realtà questo avviene assai di rado. E’ un tema ricorrente quello dei conflitti di interesse, aperti o larvati, che pervadono l’attività delle società di rating, e non è nuova la loro ritrosia a sottoporsi a forme di vigilanza. Ritrosia che peraltro, come nel caso degli hedge fund, trova ogni volta autorevoli e molteplici sponde istituzionali.
Tutto questo contribuisce alla crisi di fiducia che attanaglia gli operatori. Parliamoci chiaro: in alcuni momenti il mercato dei derivati e, più in generale, quello dei titoli di credito che derivano dal “reimpacchettamento” di insiemi di crediti e/o di altri titoli di credito, è rimasto virtualmente paralizzato. Esistono, è vero, meccanismi (detti di “credit enhancement”) in grado di migliorare il merito di credito (la “qualità”) di siffatte emissioni e quindi di suscitare la fiducia degli operatori, ma sono meccanismi che vanno utilizzati con ponderazione, e andrebbero attentamente valutati proprio da quelle società di rating che si sono mostrate così inadeguate. La mancanza di fiducia, d’altra parte, si spiega con il fatto che c’è un mucchio di carta valutata di affidabilità massima (AAA), pur contenendo insiemi di “cose” (gruppi di crediti soprattutto, e anche opzioni) che, valutate a una a una, risulterebbero di qualità molto meno attraente.
Questi prodotti sono stati comprati a piene mani anche da investitori istituzionali come i fondi pensione, felici di aggiudicarsi titoli con lo stesso rating del Tesoro americano, ma con un rendimento maggiore (a proposito, secondo la teoria finanziaria, un simile disallineamento potrebbe essere solo temporaneo: è possibile che nessun gestore si sia fermato un attimo a riflettere su questo aspetto?).
Ora, scossa la fiducia, i titoli non si scambiano. E bisogna immettere liquidità a piene mani, per evitare crolli delle quotazioni che, una volta contabilizzati, aprirebbero brecce dolorose un po’ in tutto il sistema finanziario. Dove, esattamente, nessuno lo sa con certezza. E questo proprio a causa del diffondersi di quelli che già negli anni Novanta del secolo scorso venivano chiamati “gli strumenti della nuova finanza”. Ad esempio, la Kfw – la banca di stato tedesca per la ricostruzione (paragonabile alla nostra Cassa depositi e prestiti) è intervenuta con un’operazione che ha il sapore di un salvataggio multimiliardario per salvare la Ikb, banca quotata, nei guai proprio a causa dei problemi relativi al mercato immobiliare americano.
Insomma, siamo in una di quelle situazioni in cui il settore pubblico si trova costretto a intervenire, con denaro pubblico, onde evitare disastri di portata potenzialmente amplissima originati dal comportamento – irrazionale, se si vuole far uso di larghe dosi di understatement, avventato o addirittura truffaldino se si vuole essere vicini alla realtà – degli operatori privati. Questi “strumenti della nuova finanza”, infatti, possono essere paragonati ad armi potenti: gli esiti non dipendono dalle armi in sé, ma dal comportamento di chi le utilizza.
La Fed, negli Stati Uniti, ha agito in maniera “pesante”: ha ridotto il tasso di sconto, rendendo meno onerose le operazioni di rifinanziamento di singole banche (e non del mercato nel suo complesso). In secondo luogo, sono stati resi più elastici i termini temporali del rifinanziamento. In tale quadro va rilevato che l’andamento dei tassi sui titoli a breve del Tesoro americano è stato cedente in maniera non propriamente ordinata. Ovviamente, il pilastro principale di tutta l’operazione è stato l’immissione di massicce dosi di liquidità.
Anche la Bce, dal canto suo, non ha lesinato gli euro da immettere nel sistema; con qualche differenza, però, almeno da ciò che è dato leggere. Si è trattato infatti principalmente di operazioni rivolte al mercato, che non hanno toccato i tassi ufficiali, ma hanno solo favorito una correzione dei tassi di mercato a brevissimo termine, che iniziavano a crescere disordinatamente allontanandosi dagli obiettivi della banca centrale. La durata delle operazioni quindi è stata generalmente breve, in modo da poter intervenire in maniera relativamente agevole per assorbire progressivamente l’eccesso di liquidità rilasciato (anche se è stata annunciata un’asta suppletiva da 40 miliardi di euro a tre mesi).
Tempo addietro, un segretario di Stato americano al Tesoro ricorse, in occasione di una crisi finanziaria, a un’immagine evocativa: “Bisogna evitare che il gatto, una volta scottatosi su una stufa rovente, non si sieda più nemmeno sulle stufe tiepide”. Ottimo concetto: ma qualche gatto dovrà pur scottarsi se continua a comportarsi in maniera avventata! Ed è proprio questa “punizione” dei gatti indisciplinati che la Fed sembrerebbe ritardare. Ci si muove su un crinale stretto, è vero; ma non bisogna ripetere gli errori del passato: né quelli del ’29, né quelli della gestione Greenspan (mantenimento di tassi troppo bassi per troppo tempo), che per molti versi è stata una medicina ricca di effetti collaterali a scoppio ritardato. Più in generale, sarebbe davvero utile che – una volta passata l’emergenza – riprendesse il dibattito sulla necessità che le banche centrali debbano considerare, nell’ambito delle determinanti della politica monetaria, anche l’andamento del prezzo degli asset, immobiliari e finanziari. Sia quando il mercato sale, sia quando scende.
Se così non fosse le conseguenze in termini di “azzardo morale” sarebbero gravi, e non potrebbero che portare al verificarsi di oscillazioni cicliche sempre più ampie, improvvise e violente, che alla fine sfocerebbero inevitabilmente in un crack globale dei mercati e dei principi sui quali essi si fondano.
E in prospettiva, cosa succederà? Difficile dirlo oggi. Qualcuno maligna che su alcuni strumenti, per il momento, è bene che non vi siano scambi, poiché altrimenti diventerebbero “ufficiali” valori che aprirebbero ferite significative in molti bilanci. Paul Krugman ha sottolineato sul New York Times come qualsiasi aspettativa ottimistica sul mercato immobiliare americano sia fuori luogo. I prezzi, nonostante i recenti cali (anche consistenti) restano alti, ed è possibile che il periodo “bearish” duri ancora non per mesi, ma per anni. Molti, a Wall Street, spingono per un intervento governativo che salvi il mercato immobiliare, e ritiri a prezzi di favore (accollando le perdite alla collettività) i titoli legati ai mutui subprime. Ma – a parte il fatto che segnali di sofferenza iniziano a provenire anche dai “prime loans” – l’impressione, ancora una volta, è che vi sia un atteggiamento schiozofrenico nei confronti di governi e banche centrali: da un lato si preconizza l’ormai completa realizzazione di un mercato finanziario globale capace di autoregolamentarsi (che richiederebbe solo stabilità e “neutralità” delle politiche pubbliche), dall’altro si invocano misure inconcepibili: chi, all’epoca del crack Enron o di quello della WorldCom, avrebbe pensato di poter chiedere alle autorità finanziarie di intervenire rilevando le perdite delle aziende in questione e impedendo così di sottoporre i loro manager e azionisti alla “sanzione del mercato”?