“Bergman ha spinto il più lontano possibile il nichilismo del volto, cioè il suo rapporto nella paura con il vuoto o l’assenza, la paura del volto di fronte al proprio nulla”. Possiamo prendere queste parole di Gilles Deleuze come la cifra più esemplificativa della carriera cinematografica di Ingmar Bergman, maestro indiscusso del cinema mondiale spentosi nei giorni scorsi all’età di ottantanove anni. È vero infatti che i termini essenziali del suo cinema sono quelli che ha indicato Deleuze: il volto e il nulla. Ed è vero anche che il cinema di Bergman consiste in una interrogazione del volto, di ciò che un volto può rivelare quando si trova a cospetto del nulla. E al contempo in un’interrogazione del nulla, di ciò che del nulla si può rivelare, quando si legge negli occhi di un volto. Tra i poli di questa relazione impossibile sta tutto ciò che ha popolato la lanterna magica del regista svedese: spettri, diavoli e demoni, maschere e donne, padri e figli, rancori e violenze, buio e luce, sangue e lame, grazia e schifo, fede e incredulità, preghiere e bestemmie, presenza e assenza di Dio. E tutto sta là dove solo per un regista cinematografico può stare: in immagini. Il volto del cinema di Bergman è infatti anzitutto il primo piano di un’immagine.
Ora, cos’è un’immagine? Lo si comprende bene solo se si rinuncia a pensare all’immagine come un segno. I segni sono tali grazie a una conoscenza previa, che li costituisce come segni: di determinate relazioni naturali, se si tratta di segni naturali (il fumo indica il fuoco), o di rapporti convenzionali, se si tratta appunto di segni convenzionali (siamo d’accordo che la parola “albero” significa quella cosa lì, piena di rami e di foglie). Ma quella conoscenza previa che consente di fissare la relazione segnica, quella: come si sarà formata? Se la relazione segnica è una relazione resa possibile da un sapere, bisogna che alla sua base vi sia una relazione di altra natura che renda possibile quel sapere. L’immagine assolve questa funzione. Perciò non può essere un segno e deve precederlo. Come il segno, l’immagine sta per qualcos’altro: per ciò di cui è immagine. Ma diversamente dal segno si lascia riconoscere immediatamente, nell’immagine stessa, senza la mediazione di un sapere (naturale o convenzionale che sia).
Ora, però, la funzione del cinema e delle arti visive in genere consiste nel mostrare che al cuore di quest’immagine vi è un’essenziale e invisibile incrinatura. Perché è vero che l’immagine dev’essere immediatamente l’immagine di qualcosa. Ma è anche vero che, proprio perché immagine, altrettanto immediatamente l’immagine di una cosa non è quella cosa. Appena ci accorgiamo di questo “non”, diviene un mistero come qualcosa possa essere immediatamente immagine di qualcos’altro, essendo al contempo altra cosa, distinta e distante da quella. Distanza vuol dire infatti relazione, cioè mediazione, e invece l’immagine doveva funzionare immediatamente come tale.
Questo mistero dell’immagine risplende massimamente nel volto. Perché il volto è la persona, ma al tempo stesso non lo è. Fatevene un’immagine, avvicinatevi il più possibile: avrete una maschera mortuaria. Non la persona, ma la sua morte, la sua fine, il suo nulla. Il volto è la persona, e tuttavia non lo è. Se il volto coincidesse con la persona, se ognuno di noi aderisse perfettamente alla propria sempre identica espressione, la vita uscirebbe da lui. Ma se non coincide, non è perché v’è dell’altro (altrimenti addio immediatezza del volto), ma è, di nuovo, in virtù di nulla. Al volto infatti non manca nulla, per essere il volto di una persona. Questo nulla è dunque, insieme, condizione della felicità e dell’infelicità di un volto, della sua vita e della sua morte. Non è lo specchio dell’anima, se non perché è lo specchio di nulla. Anima, nulla e specchio: non c’è altro. E l’inquietudine del volto, il terrore che si dipinge sul volto dell’uomo, quando scopre che il nulla lo abita necessariamente, è il tema dominante e persino ossessivo del cinema di Bergman.
Ma non vi è solo il volto smarrito del professore Isak Borg ne “Il posto delle fragole”, o quello schizofrenico di Karin in “Come in uno specchio”. Il volto muto di Elisabet Volger in “Persona” o quello duro e vuoto del pastore Tomas in “Luci d’inverno”. Vi è anche il volto di Monica in “Monica e il desiderio”, nel “piano sequenza più triste della storia del cinema” (Godard), quando Monica si volta lentamente e, violando le convenzioni classiche del cinema, guarda in camera, verso lo spettatore, e lascia che l’ambiguità sospesa del suo sguardo abbandoni la dimensione del racconto e investa anche noi, come se non fosse solo lo squallore dei locali malfamati che riprenderà a frequentare a segnare una vita, ma la stessa insensatezza della sua rappresentazione, a cui ciascuno è condannato.
Si disegna così un’ultima oscillazione sui volti e nel cinema di Bergman, fra l’intensità dolorosa di un’immagine e la tragica buffonata della sua rappresentazione. L’angoscia e il carnevale.
Ricorda Begman a proposito del suo film più famoso, “Il settimo sigillo”, che “percorse il mondo come un incendio”: “Bengt Ekerot [l’attore che nel film impersona la Morte] e io eravamo d’accordo sul fatto che la Morte dovesse portare una maschera da clown, quella del clown bianco, o meglio, una combinazione tra la maschera da clown e il teschio”. La linea sottile che li divide e percorre è forse la stessa che si disegna nella scena finale del film, forse la più famosa di tutto il cinema di Bergman, con la Morte che si allontana danzando con i viandanti. Lungo quella linea, tra la terra nera e un cielo grigio e vuoto, se ne è andato per sempre il grande Ingmar Bergman.