Inconsistente sul piano giudiziario, inesistente sul piano etico e fuorviante sul piano economico – se stiamo alla versione che ne danno i grandi giornali, s’intende – la vicenda Unipol-Bnl presenta tuttavia un aspetto che meriterebbe, a sinistra, una discussione approfondita e sincera. E’ l’aspetto che sabato 28 luglio ha rilevato Piero Sansonetti su Liberazione, in un editoriale dal titolo: “Fassino e D’Alema a un bivio – O rivendicate Craxi o rivendicate Berlinguer”. Articolo che parte dalla celebre intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981, esattamente ventisei anni prima.
Ventisei anni dopo, si potrebbe osservare, siamo ancora qui. E ognuno può ricavare da questa constatazione la lezione che preferisce: siamo ancora qui perché sulla questione morale, in questi ventisei anni, l’Italia non ha fatto un passo avanti; oppure, forse, siamo ancora qui perché è il dibattito interno alla sinistra che non riesce a liberarsi dall’ipoteca del passato, chiuso in un circolo vizioso da cui nessuno sa più come uscire, ammesso che lo voglia.
Eppure, in verità, ne siamo già usciti. E il primo a esserne uscito è proprio Piero Sansonetti, con il suo articolo di sabato, ma probabilmente già molto prima. Almeno da quando, cioè, Sansonetti ha assunto la direzione di Liberazione, facendone uno splendido giornale di sinistra, uno dei pochi giornali che nell’Italia di oggi si possano definire tali, nonostante il vezzo di dirsi ancora in testata (ma per quanto ancora?) “giornale comunista”.
Sansonetti riparte dalle parole di Berlinguer: “I partiti hanno occupato lo stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente… Il risultato è drammatico. Tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica”. E così commenta, oggi, il direttore di Liberazione: “Fa un certo effetto rileggere queste parole il giorno nel quale Nicola Latorre, a nome anche di Piero Fassino e Massimo D’Alema, sul Corriere della sera rivendica il diritto del suo partito, e dei dirigenti del suo partito, a occuparsi della scalata a una banca; e anzi esprime disappunto per il fatto che questa scalata non sia riuscita. E’ chiara la rotta di collisione tra il pensiero di Berlinguer e la linea di Nicola Latorre”. Si potrebbe aggiungere che non fa meno effetto rileggere le parole di Berlinguer dopo la stagione delle grandi privatizzazioni, seguita al terremoto politico-giudiziario del 1992. E ci si potrebbe anche domandare se oggi, ai posti di comando, riprendendo il lungo elenco di Berlinguer, le tante e non sempre limpidissime “operazioni” compiute dagli esponenti più e meno in vista del nostro establishment non rispondano a un’uguale e contraria logica di clan, che nulla ha a che vedere, però, con partiti e correnti (e con il relativo controllo democratico esercitato su di essi dalla sovranità popolare). Partiti e correnti che in questi anni sono stati spinti ai margini da ben altri clan, anche grazie a manette, avvisi di garanzia, intercettazioni e titoli di giornale.
Detto questo, Sansonetti aggiunge: “Io conosco bene Latorre (come Fassino e D’Alema) e non dubito neanche per un minuto della loro onestà. Ma qui non è la loro onestà che è in discussione: è la questione politica, è il rapporto tra politica e affari, e in definitiva tra politica e morale”. Forma e sostanza della critica ai dirigenti diessini, come si vede, sono ben lontane dai toni e dalle premesse politico-culturali – diciamo così – che si possono rintracciare negli articoli di Marco Travaglio, giusto per fare un esempio. E la stessa distanza da quell’impostazione si ritrova nel modo in cui Sansonetti ricostruisce lo scontro tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi, definendoli giustamente “due grandi leader dell’Italia di quell’epoca”. Definizione che farà certamente gridare d’indignazione Furio Colombo, Paolo Flores e Marco Travaglio, magari proprio dalle pagine del Corriere del sera.
“Craxi era convinto – scrive Sansonetti – che la sinistra dovesse uscire dal suo vecchio operaismo e candidarsi alla guida di una profonda modernizzazione del paese, e quindi del capitalismo italiano”. E che per far questo “si dovesse entrare, con aspirazioni di egemonia, dentro il ‘blocco borghese’, separare i settori conservatori da quelli più avanzati”, anche attraverso “l’intervento della politica nella finanza, nei suoi assetti, negli affari”. Dalla parte opposta, invece, Berlinguer “riteneva che la sinistra dovesse battersi per l’autonomia della politica… e lo potesse fare solo separando la politica dal potere economico e finanziario, recuperando la sfera della politica ‘pura’ e conquistando autorevolezza morale nella battaglia contro l’invasione dei campi autonomi dell’economia, della società civile, dell’amministrazione”.
Non è possibile, però, condividere l’interpretazione che Sansonetti offre qui del pensiero berlingueriano. Rileggendo il passo dell’intervista a Scalfari prima citato, non si può dire che quell’interpretazione sia destituita di ogni fondamento, ma certo apparirebbe perlomeno bizzarro che una simile concezione dei rapporti tra politica ed economia appartenesse a un leader comunista, che tale rimase fino all’ultimo minuto della sua vita. E non meno sorprendente sarebbe constatare che una simile concezione – che è il cuore dell’ideologia liberista – sia condivisa da Sansonetti e dal suo splendido “giornale comunista”. In quella concezione, infatti, non c’è alcuna idea di autonomia della politica, a meno che non si consideri autonomia la libertà del detenuto di fare, dietro le sbarre, quel che più gli piace: ora stando in piedi, ora sdraiandosi su un fianco invece che a pancia in su, ora mettendosi a correre in tondo lungo i quattro metri della sua cella. Enrico Berlinguer, nella cupa stagione seguita alla crisi della sua strategia – l’unica strategia che abbia mai avuto, e grandiosa, ancorché fallita: quella del compromesso storico – può avere assunto anche posizioni più vicine a una cultura azionista, come quelle del suo intervistatore, ma era e restava il segretario del Partito comunista italiano. E quando auspicava una politica liberata dai vincoli soffocanti di una gestione del potere in rapida degenerazione, lo faceva in nome di un’esigenza di trasformazione radicale di cui la politica doveva rendersi artefice, in tutti i campi, non certo perché convinto che massima ambizione delle forze democratiche dovesse essere quella di fare da guardalinee al “libero gioco” delle forze di mercato, nazionali e internazionali. Un’interpretazione residuale della politica dinanzi agli equilibri consolidati, alle forze in campo, alle condizioni date, cui si ridusse semmai – almeno nella sua ultima fase – proprio la linea di Bettino Craxi. Abbandonando così quel disegno di modernizzazione fondato sul primato della politica che Sansonetti gli riconosce, fin troppo generosamente.
Resta il fatto che è proprio il direttore di Liberazione, con la sua lettura dello scontro tra Craxi e Berlinguer – che è una lettura, come si è visto, squisitamente politica – a rifiutare il paradigma moralista. Ed è proprio il suo giornale che apre da mesi con titoli a tutta pagina sul “complotto neocentrista” del Corriere della sera e dei “poteri forti”, chiedendo al centrosinistra di resistere all’assalto dell’oligarchia industriale. C’è dunque più politica tra il cielo dell’alta finanza e il terreno delle campagne di stampa orchestrate dai giornali confindustriali, si potrebbe dire, di quante ne sogni la filosofia gesuitica della distinzione tra “politica e affari”. E Sansonetti dimostra ogni giorno di essere il primo a saperlo. Proprio per questo dispiace che quella distinzione di comodo – con la parola “affari” al posto di “economia”, a nascondere la vera posta in gioco e a marchiare d’infamia chiunque attenti all’autonomia e al primato della finanza – stinga persino sulla sua prosa.
Resta comunque all’ordine del giorno una discussione da fare, approfondita e sincera, che l’editoriale di Liberazione imposta nei suoi termini propri. Anche se a nostro giudizio, per le ragioni che abbiamo provato a spiegare sin qui, la sinistra italiana da quella impostazione dovrebbe partire per superarla, una volta per tutte, non certo per riscoprire né la questione morale di Berlinguer, né la spregiudicatezza amorale di Craxi. Due impostazione che alla fine dei conti si sono rivelate entrambe – al di là dei meriti individuali di quelli che restano senza dubbio “due grandi leader dell’Italia di quell’epoca” – specularmente subalterne, insufficienti e perdenti.