La sprezzante risposta del gip Clementina Forleo (“rimarrò soggetta, come sempre, solo alla legge”) ai puntuali rilievi che il Capo dello Stato, nelle sue funzioni di Presidente del Csm, ha indirettamente rivolto alle sue due ordinanze – dopo la loro pubblicazione sulla stampa, in attesa di essere inviate al parlamento – non lascia presagire nulla di buono. In altre circostanze quelle parole sarebbero state archiviate come l’espressione di una concezione stravagante (e irrispettosa) dei rapporti con la legge e con le istituzioni. Una concezione che pretende di affidare la verifica della correttezza dell’operato del magistrato unicamente alle sue valutazioni soggettive e non alle procedure di controllo previste dall’ordinamento giudiziario. Per non dire della scarsa conoscenza delle proprie funzioni manifestata da un giudice che, come ha autorevolmente rilevato Vittorio Grevi, con quelle ordinanze ha realizzato “un’abnorme invasione di ruoli corrispondente, sul piano processuale, a una vera e propria bestemmia giuridica”, in quanto al gip non è concesso di prospettare “ipotesi accusatorie, o anche soltanto apprezzamenti di colpevolezza, a carico dei soggetti non sottoposti a indagine dal pm”. Eppure, nonostante la clamorosa evidenza dei fatti e la netta presa di posizione del vertice dell’Associazione nazionale magistrati a fianco di Giorgio Napolitano, l’esplicito e affettuoso sostegno a “Clementina” da parte di alcuni grandi quotidiani (un editoriale della Stampa si spinge a definire il discorso del Presidente “una difesa dei leader del suo partito coinvolti nelle intercettazioni”) dimostra la volontà di molti di “cavalcare” la vicenda. Presentandola come un nuovo capitolo del conflitto tra politica e magistratura, allo scopo di utilizzarla come strumento di lotta politica contro il principale leader della sinistra italiana, che si appresta a diventare uno degli azionisti di maggioranza del futuro Partito democratico, a dispetto della tenace e pluriennale opera di “aggiotaggio politico” da parte del cospicuo arco di forze (tra cui non mancano, d’altronde, gli esperti della materia) interessate a scongiurare questo esito.
La prospettiva di poter “sparare” in prima pagina la notizia di un’indagine a carico del ministro degli Esteri è troppo ghiotta per i nostri campioni dell’interesse nazionale, che hanno già assaporato questa gioia – o meglio, per riprendere una celebre invettiva parlamentare di Vittorio Emanuele Orlando, questa “cupidigia di servilismo” – nei confronti del Presidente del Consiglio Berlusconi impegnato a presiedere il G8. Pare già di vedere i titoli a tutta pagina, le immancabili interviste concesse “per dovere di cronaca” ai Flores D’Arcais e ai Deaglio, affiancate dagli abituali resoconti scandalizzati di qualche ennesima e inaudita manifestazione di autonomia della politica estera italiana nei confronti dell’amministrazione statunitense (naturalmente sottacendo le inspiegabili analogie con la posizione della Francia di Nicolas Sarkozy e degli altri paesi europei). Siamo in attesa della consueta consultazione fra i “tre direttori” e i loro amici per la decisione definitiva sulla data dell’offensiva finale: per il momento sono in ballottaggio il 13 e il 14 ottobre, ma anche la vigilia di qualche importante riunione internazionale è ben piazzata. In ogni caso, fino al voto parlamentare sulle ordinanze, la linea è di elogiare la coraggiosa decisione dei vertici diessini di autorizzare l’uso delle intercettazioni.
Visto quello che ci aspetta, può essere utile richiamare sommariamente gli aspetti principali dell’affaire Unipol-Bnl e formulare alcuni interrogativi sulle ragioni di fondo per cui esso costituisce un “caso” politico e giudiziario che da oltre due anni ritorna ciclicamente al centro dell’attenzione. Se ci si limitasse al piano strettamente giuridico, risulterebbe assai difficile comprendere le cause del rilievo che molti attribuiscono alla vicenda. In primo luogo, perché normalmente i giudici perseguono i reati e non i “disegni criminosi”, e in questo caso ci vuole davvero molta fantasia per ricavare dalle conversazioni intercettate il reato di insider trading (cioè l’uso sul mercato di informazioni privilegiate a scopo di lucro) o di aggiotaggio (l’uso di notizie false e tendenziose per modificare illecitamente il valore dei titoli). Anche uno studente di giurisprudenza saprebbe infatti dimostrare che quelle telefonate non hanno provocato alcuna variazione nelle quotazioni di borsa, né alcuna asimmetria informativa tra i soggetti impegnati nello scontro su Bnl, avvantaggiandone alcuni a scapito di altri. In secondo luogo, perché proprio le intercettazioni forniscono un’ulteriore conferma che tra le vicende Unipol, Antonveneta e Rcs non è esistito alcun rapporto. Per quanto riguarda il Corriere della sera, appare ormai assodato che non vi fu alcuna scalata ma solo il tentativo di Stefano Ricucci di investire i corposi guadagni delle sue operazioni immobiliari e finanziarie per raggiungere il 20% dell’azionariato di Rcs e, in virtù di quella posizione (che consente la convocazione di un’assemblea degli azionisti), essere cooptato nel patto di sindacato per acquisire influenza nel “salotto buono” dell’economia italiana. A impedire la partecipazione di Hopa alla scalata ad Antonveneta (peraltro precedente a quella a Bnl) fu proprio Consorte, il quale peraltro, in una delle conversazioni intercettate, si vanta apertamente di aver tenuto fuori gli immobiliaristi dall’opa su Bnl, nella quale essi giocarono un ruolo unicamente in quanto detentori di un pacchetto di azioni di quella banca, che Unipol e i suoi alleati internazionali acquistarono sul mercato (cioè ad un prezzo superiore a quello offerto dai loro concorrenti spagnoli). Quanto infine alla presunta “regia” di Antonio Fazio, le telefonate intercettate documentano chiaramente il disappunto di Consorte per il continuo rinvio da parte del governatore dell’autorizzazione definitiva della Banca d’Italia, il cui ritardo, che si protrasse per mesi, fu alla base del fallimento dell’operazione (in quanto nel 2006 entrarono in vigore diversi criteri nella valutazione dei requisiti patrimoniali meno favorevoli a Unipol). Una mancata autorizzazione che, insieme alle singolari circostanze che l’hanno determinata (una violentissima campagna di stampa condita dalla diffusione illegale di intercettazioni di non sempre chiarissima provenienza) costituisce in realtà l’unico vero scandalo della vicenda su cui prima o poi occorrerà fare piena luce.
In assenza di risvolti penali occorre dunque lasciare il terreno tecnico-giuridico per spostarsi su quello politico, come d’altronde invitava a fare dalle colonne di Repubblica Giuseppe D’Avanzo, uno dei principali protagonisti dell’offensiva mediatica contro Unipol (oltre che celebre “scopritore” dei casi Telekom Serbia e Oil for food, nonché acerrimo avversario della componente dei servizi di sicurezza più propensa al dialogo con il mondo arabo e indimenticabile censore delle rimostranze italiane per il caso Calipari). La vera accusa contro D’Alema è infatti di aver violato due tra le principali “leggi” non scritte della “seconda repubblica”, quelle secondo cui la politica non deve occuparsi dell’economia e il dialogo con l’avversario costituisce un “inciucio” che mina il bipolarismo.
Sebbene in questo caso si tratti di un’accusa priva di fondamento, perché (verrebbe da dire purtroppo, come ha amaramente e giustamente rilevato Cesare Romiti) i Ds non hanno fornito alcun concreto supporto a Unipol né in quella circostanza hanno concertato una linea sul futuro del sistema bancario con il governo di allora, la questione ha un’importanza cruciale. Il punto di fondo riguarda infatti la legittimità della politica democratica nel concorrere a determinare il futuro del sistema economico del proprio paese. E, nello specifico, il diritto-dovere da parte di un partito come i Ds di sostenere in modo aperto e trasparente, e ovviamente nel rispetto della legge, l’aspirazione del movimento cooperativo a dotarsi di un polmone finanziario adeguato a sostenere la crescita e la competitività internazionale delle proprie imprese (che ormai in molti settori, dalla grande distribuzione alle costruzioni, sono rimaste pressoché sole a reggere i colpi della concorrenza mondiale) contendendo sul mercato una grande banca a un gruppo straniero. La famosa sussidiarietà è anche questo, e basta mettere il naso fuori dall’Italia per vedere che un paese in cui la politica deve limitarsi ad assistere impotente alle decisioni altrui e non è in grado di unirsi di fronte alle sfide dei suoi competitori non ha futuro. La principale novità dell’attuale fase internazionale è costituita infatti dal carattere diffuso e dalle dimensioni della crescita economica. A differenza di quel che accadeva negli anni Novanta, siamo dinanzi a un boom che non è trainato unicamente dalla new economy e dai consumi americani, ma che vede un peso sempre crescente degli investimenti in beni strumentali nei paesi extra-occidentali. Questa nuova dimensione “multipolare” dell’economia mondiale sta trasformando profondamente i caratteri dei mercati finanziari, che vedono un ruolo inedito delle grandi potenze emergenti, rendendo improvvisamente inservibili alcuni dei principali dogmi liberisti dello scorso decennio. Tutti i principali governi europei hanno prontamente registrato questo brusco cambiamento di scenario, che richiede un forte grado di coesione del tessuto politico, economico e sociale della nazione proprio se si vuole evitare un rigurgito protezionista e statalista che avrebbe effetti devastanti sulla costruzione europea. Negli ultimi anni, l’irresponsabilità delle classi dirigenti italiane ha già permesso che numerosi pezzi pregiati del lavoro e dell’impresa italiana venissero perduti (basti pensare ai casi di Pirelli Cavi, Fiat Avio e Fiat Ferroviaria). Se non vogliamo che l’Italia si trasformi definitivamente in un supermarket riservato a questa o quella consorteria finanziaria internazionale, sarebbe estremamente utile abbandonare il terreno dei veleni e delle strumentalizzazioni e, prendendo spunto da quelle vicende ormai chiuse, aprire un vero dibattito sui rapporti tra politica ed economia e sulla differenza che dovrebbe passare tra una moderna democrazia dell’alternanza e il bipolarismo fragile e rissoso che si è affermato nell’ultimo quindicennio. Un dibattito che potrebbe partire proprio da una più razionale analisi delle scelte, dei punti deboli e dei punti di forza di tanti altri paesi europei, dalla Germania della grande coalizione a quella Francia di Nicolas Sarkozy che oggi, dinanzi alla sfida posta alla politica nazionale dalla feroce concorrenza globale sui mercati finanziari, può giovarsi anche di una solida presenza internazionale. Anche in Italia, per esempio, grazie a quella Banca nazionale del lavoro nata come istituto di credito cooperativo e oggi pienamente assorbita da uno dei principali istituti di credito francesi.