Dopo lunghi mesi di silenzio, riprendiamo ancora una volta a scrivere su queste pagine, perché prima o poi a casa si torna sempre. E noi a questa piccola casa sperduta nella Grande Rete ci siamo affezionati, anche se negli ultimi anni l’abbiamo frequentata in modo incostante, per una ragione politica superiore che non consente eccezioni: avevamo altro da fare. Ma soprattutto, più che il tempo, a mancarci era la voglia. Perché per avere ancora voglia di parlare del mondo circostante bisogna che pure il mondo ci metta qualcosa del suo, per non fartela passare.
Abbiamo scelto di tornare a scrivere qui nonostante la maggior parte di noi scriva anche altrove, fortunatamente, perché è qui che molti di noi hanno cominciato, e comunque è da qui che abbiamo voglia di riprendere il discorso. In fondo è questo il motivo per cui si torna a casa: per ricominciare, per portare nelle vecchie strade qualcosa del mondo che si è visto fuori, per cambiare prospettiva.
Il panorama che si gode attualmente dalla vecchia casa della sinistra non è, obiettivamente, un granché. Come non è un granché, in generale, il panorama italiano. Il tenore del dibattito pubblico risente inevitabilmente delle pesanti condizioni economiche e sociali imposte dalla crisi. Proprio per questo, più forte si fa sentire il bisogno di aprire una finestra, cambiare l’aria di una discussione asfittica, in cui persino le istanze di rinnovamento hanno l’espressione grottesca di ottantenni acconciate come cubiste da discoteca. A sentire certi comizi di questi giorni sembra di rileggere ll giovane Holden nella traduzione Einaudi degli anni cinquanta, tutta “pupe” e “sollucchero”. E’ triste ma è così: non c’è niente che invecchi come la giovinezza.
La sfida delle primarie è anche il culmine di questo processo, in cui il rinnovamento viene indicato in una tardiva incarnazione etica ed estetica dello yuppismo anni ottanta. In compenso, il dibattito in corso sulla legge elettorale mostra quanto i vertici del Partito democratico siano ancora prigionieri delle idee fallite degli anni novanta. La crisi di rappresentanza che investe tutta intera la democrazia italiana, e non soltanto la politica, richiede prima di tutto che i partiti tornino a pesare per i voti che raccolgono, dunque che gli elettori possano tornare a scegliere liberamente per quale partito votare. Una libertà che è stata loro tolta da vent’anni, in cambio dell’illusoria possibilità di scegliere maggioranza e presidente del Consiglio. Possibilità, peraltro, non prevista dalla Costituzione.
Nella fine della Prima Repubblica ha echeggiato a lungo la condanna del “politichese”, si è ripetuto continuamente che l’uomo politico dovesse scendere al livello dell’uomo della strada. Il risultato è stato la discesa in campo di Silvio Berlusconi, che l’uomo della strada lo conosceva e sapeva come blandirlo meglio di ogni altro. E oggi, dinanzi a una crisi di sistema non meno radicale di quella dei primi anni novanta, è arrivato il turno di Beppe Grillo e dei suoi Vaffa-Day. Non si vede come si possa scendere più in basso di così.
Tanto vale provare a risalire. O a risollevare almeno lo sguardo.