In America si riaccende periodicamente il dibattito sugli scenari militari in Iraq, sintetizzabile in un paio di domande: la forza della guerriglia si sta attenuando oppure resta immutata? La strategia scelta dal comando alleato è quella giusta oppure si potrebbero conseguire risultati migliori? Alcuni giorni fa l’affermazione del vicepresidente Cheney che i ribelli sono all’ultima spiaggia ha provocato una vera e propria dissociazione da parte di esponenti dell’esercito. Il generale Abizaid, pur rifiutandosi di commentare i giudizi di Cheney, nel corso di una audizione senatoriale ha detto che il potenziale dei rivoltosi è rimasto immutato negli ultimi sei mesi e il numero dei combattenti stranieri che vengono in Iraq sta addirittura aumentando. Il generale ha chiuso la sua deposizione con un lapidario: “C’è ancora molto da fare contro la rivolta”.
Negli ultimi mesi vi sono stati senza dubbio notevoli successi nelle operazioni contro la guerriglia. Da Najaf a Mosul, da Fallujah al confine con la Siria, si sono susseguiti scontri vittoriosi, con migliaia di insorti catturati e ingenti quantità di armi sequestrate. Le perdite americane sono state minime. Proprio negli ultimi giorni è stata eseguita una brillante manovra contro il flusso di armi e guerriglieri proveniente dalla Siria. L’ottimismo ostentato da Cheney si spiega con questi successi.
Tuttavia, accanto alle luci permangono le ombre. Nonostante i colpi subiti, la guerriglia dimostra una accresciuta capacità di organizzare attentati. Contro le forze americane nelle ultime settimane si sono registrati circa sessanta attacchi al giorno. Rischi molto maggiori corre la polizia irachena, che non dispone di mezzi blindati e di caserme sicure. I soldati operano in un clima esasperato di tensione contro un nemico sfuggente. Questa perdurante e diffusa insicurezza oscura le retate vittoriose e le scoperte di depositi di munizioni.
La guerriglia sta mostrando anche segni di evoluzione tecnologica. Il 14 giugno un attacco a un convoglio militare americano ha visto l’esordio di nuovi esplosivi più sofisticati, in grado di distruggere mezzi pesanti. Tali bombe sviluppano un’onda d’urto più concentrata e violenta. In altri casi recenti gli esperti hanno segnalato l’impiego di sistemi di detonazione più insidiosi, basati sui laser all’infrarosso, per eludere i disturbatori di frequenza usati contro i tradizionali detonatori che sfruttano impulsi elettrici. Tutto questo non dà certo l’idea di una guerriglia sull’orlo della resa. Probabilmente gli attentatori si avvalgono di specialisti stranieri o del vecchio esercito iracheno. Alcuni hanno ipotizzato l’intervento di qualche scienziato missilistico di Saddam. Un esame dei nuovi ordigni è stato compiuto giorni fa in un incontro di esperti svoltosi a Fort Irwin, nel deserto della California. Per ovvi motivi le conclusioni di questa riunione non sono state rese note, ma un tecnico interpellato in proposito ha ammesso che un salto qualitativo è stato compiuto ed è lecito attendersene altri nel prossimo futuro.
Il persistere degli attentati desta allarme al Pentagono, dove si è pensato di allestire un gruppo di studio sulle caratteristiche assunte dalla guerriglia e sulla sua possibile durata. Il gruppo esaminerà casi passati e presenti di guerra per bande alla ricerca di lezioni per il teatro iracheno. Sembra che anche i Marines stiano aggiornando il loro manuale sulle insurrezioni, proprio sulla base delle esperienze degli ultimi mesi. Un esperto di questo corpo ha affermato che la presenza americana potrebbe durare anche dieci anni.
La guerriglia sfugge per definizione agli scontri campali. Nei centri dove avevano stabilito le loro basi i guerriglieri non sono stati in grado di opporre una seria resistenza alle recenti operazioni delle truppe americane, ma ripiegando per tempo hanno limitato i danni. L’ordine è stato ristabilito per il periodo in cui gli americani presidiavano i luoghi “ripuliti”, ma alla loro partenza le imboscate e le violenze contro i “collaborazionisti” sono riprese. In altre parole, l’Iraq continua a rivelarsi troppo grande e complesso rispetto al numero di forze americane presenti. La guerra con forze limitate teorizzata da Rumsfeld ha funzionato nel 2003, quando si trattava di combattere un conflitto regionale di tipo convenzionale contro un esercito regolare. Le cose sono cambiate dopo, quando gli americani si sono trovati a dover fronteggiare la guerriglia di un mosaico di oppositori e anche un diffuso banditismo tipico di un territorio instabile. Gli Stati Uniti hanno vinto la prima guerra, ma non hanno accettato il fatto che ne stava iniziando un’altra non meno insidiosa. Ha pesato una visione semplicistica del cammino iracheno verso la democrazia e un parallelo mal posto con le politiche di occupazione in Germania, Italia e Giappone. Le conseguenze sono state gravi: ad esempio si è smantellato buona parte dell’esercito iracheno prevedendo solo un piccolo contingente per la difesa dai paesi vicini e non si è affrontato per tempo il compito di costituire delle milizie irachene per la sicurezza interna. Ciò ha finito col regalare alla guerriglia molti uomini del vecchio esercito.
Questa politica è poi cambiata, fino alla svolta successiva alle elezioni del 30 gennaio scorso, quando il comando americano ha stabilito che l’addestramento di forze irachene è un compito prioritario. Secondo le fonti ufficiali, sino ad oggi sono stati reclutati ed equipaggiati circa 170 mila uomini, per un totale di 107 battaglioni tra esercito e polizia speciale. Di questi, tuttavia, si è detto di recente che solo tre erano in grado di operare autonomamente. In molti casi lo scenario è quello di soldati che vendono le proprie armi appena si allentano i controlli. A proposito della costruzione dell’esercito iracheno, il Washington Post ha parlato di “Mission Improbable”, parafrasando il titolo di un noto film in cui la missione è in realtà “impossibile”.