Se continua così, l’industria manifatturiera italiana chiude nel giro di pochi anni. Nel contempo siamo il paese che spende meno nella ricerca. Mentre tutti i sistemi economici avanzati (incluse India e Cina) spendono, tra soldi pubblici e investimenti privati, circa il 2,5% del pil in questo campo, l’Italia arriva a malapena all’uno per cento. Inoltre, con buona pace dei precetti neoliberali che solo noi, per pigrizia delle classi dirigenti, sembriamo aver preso sul serio, in tutti questi paesi gli indirizzi della ricerca sono abbondantemente influenzati (in vario modo) dai governi, secondo una visione strategica dello sviluppo industriale di ciascun paese. Stendendo un velo pietoso sulla politica del governo Berlusconi, che ha pensato di affrontare il crollo della nostra industria prima dal lato dei benefici fiscali ai singoli imprenditori, poi da quello della lotta contro Maastricht e contro la Cina, anche per l’agenda di un futuro, probabile governo di centrosinistra affrontare in modo efficace e tempestivo questo nodo non sarà facile.
Il precedente governo dell’Ulivo è stato troppo condiscendente verso i precetti del liberismo light: privatizzazioni senza politica industriale (concetto in odore di eresia dirigista) i cui proventi (destinati alla riduzione del debito) non sono utilizzabili per lo sviluppo, frazionamento di importanti imprese pubbliche, separazione tra reti e gestori e altri comandamenti dell’epoca. Il centrosinistra, facendo disciplinatamente i compiti, aveva sperato di sfruttare la congiuntura favorevole (fine degli alti tassi di interesse sul debito, integrazione europea non osteggiata dagli Usa di Clinton e boom della new economy) per cogliere qualche occasione di crescita dimensionale e qualificazione tecnologica delle nostre industrie. Con le liberalizzazioni, la dual income tax, la 488, con qualche intuizione di politica industriale, si sono fatti dei passi in direzione della competitività, ma gran parte di questi sono stati vanificati dalle resistenze corporative di vasti settori del lavoro e dell’impresa e dalle fastidiose lezioncine dei giornali confindustriali che hanno declinato per oltre un decennio in modo ossessivo quei precetti, spesso per favorire i loro proprietari ( “L’Iri è un carrozzone che va smantellato”, lo Stato non deve vendere, ma “svendere”). In un contesto per di più segnato da confusione legislativa (sovrapposizione tra norme comunitarie spesso negoziate male, leggi nazionali e la folle riforma del Titolo quinto), istinti predatori dei campioni dell’industria nazionale desiderosi di accedere alla rendita degli ex monopoli pubblici, infinite perdite di tempo per costruire una generosa strategia di sviluppo locale basata su patti territoriali, parchi tecnologici e autonomia universitaria.
Oggi siamo dove siamo.
Dopo la crisi del ’29 si è fatta l’Iri, dopo la guerra si sono fatte l’Eni e Mediobanca, se vogliamo evitare una nuova catastrofe produttiva che ci porterebbe fuori dall’euro (neanche per scelta nostra, ma per naufragio) è da quei modelli che bisogna ripartire. Con una avvertenza: nel primo caso le banche erano l’epicentro della crisi e furono quindi nazionalizzate, nel secondo il problema era la scarsità di capitali per cui il credito era tutto amministrato e solo a Mediobanca era consentito fare operazioni a lungo termine, con assunzione di partecipazioni dirette nelle imprese manifatturiere; oggi i capitali abbondano sui mercati, le banche italiane possono fare tutto e sono la parte meno fragile del sistema, tant’è che gia sorreggono tutte le grandi imprese rimaste, Fiat in testa. Si faccia tutto ciò che si può per salvare, qualificando e delocalizzando le produzioni, le piccole e medie imprese, ma per quanto riguarda le imprese strategiche e la ricerca (loro necessario alimento) non si può non dotarsi di una terapia shock Occorre dire con chiarezza dove è opportuno indirizzare le alleanze internazionali di Enel, Eni, Finmeccanica, Fiat e delle principali banche, senza nascondersi dietro la formuletta che, essendo S.p.a. quotate in borsa, il Governo non deve interferire.
Sul fronte della ricerca quindi non bisogna incartarsi nuovamente nelle estenuanti negoziazioni corporative con gli enti pubblici e con gli atenei per definire una loro riorganizzazione favorevole all’eccellenza e allo sviluppo di nuovi progetti di ricerca che poi non si sa quando e dove produrranno un esito industriale. Né si faccia un piano severo e rigoroso di bilancio che tuttavia ci consenta in cinque anni di raddoppiare il budget pubblico del settore, portandolo dal 0,7% all’1,4% del pil (circa 16 miliardi di euro). Per arrivare alla mole di investimenti necessari a scongiurare il disastro, visto che le imprese non aggioungono quasi nulla a quella cifra, servono subito almeno 20 miliardi di euro l’anno e vanno spesi in modo efficace, cosa che l’attuale assetto organizzativo del sistema paese non favorisce. Forse bisogna rovesciare l’approccio: si decidano gli ambiti di ricerca strategici per la reindustrializzazione del paese, poi si può, oltre a indirizzare sui progetti e non sugli enti ciò che il bilancio dello Stato può dare, creare un Istituto di credito speciale, senza aver paura delle parole!
Potrebbe essere una banca a proprietà mista, prevalentemente privata, partecipata dalle migliori banche italiane ed europee, che possa erogare crediti di grosse dimensioni per l’avanzamento di importanti progetti di ricerca in quei settori, suscettibili di sviluppi industriali, provenienti da laboratori pubblici italiani o continentali. Si tratterebbe di crediti a lunga scadenza, sui quali si potrebbero emettere titoli di analoga durata i cui interessi siano a carico dello Stato, oppure rimborsati annualmente in tutto o in parte dallo Stato, oppure ancora garantiti, in tutto o in parte, dai diritti di sfruttamento industriale del brevetto. Una struttura agile con queste caratteristiche, non avrebbe difficoltà a mettere insieme il meglio del management e dei consulenti scientifici per individuare i progetti migliori, per agevolarne e monitorarne con lungimiranza e competenza lo sviluppo, per selezionare, in Italia e ovunque nel mondo, le imprese più adatte a sfruttare l’invenzione, con l’unico vincolo che tutta o parte della produzione industriale legata a essa si localizzi nel nostro paese. Per rispondere alla crisi industriale del paese e avviare una ricostruzione della sua capacità produttiva non c’è dubbio che serva un’Iri adatta ai tempi nostri. Conviene iniziare rimettendo in moto i cervelli e i laboratori del nostro paese e volgendo lo sguardo alle sfide dei prossimi vent’anni. Il resto seguirà.