Non fu un caso se in Italia la necessità di una visione condivisa della storia e dell’identità nazionale cominciò a porsi come problema politico all’inizio degli anni Novanta, sull’onda delle discussioni intorno al cosiddetto revisionismo storico del decennio precedente. Non fu un caso se questo avvenne all’indomani del crollo dell’Unione sovietica, dinanzi al trattato di Maastricht e al tramonto della Prima Repubblica, tra le inchieste di Mani Pulite e i referendum sul sistema elettorale (tutti eventi concentrati non per nulla tra il 1991 e il 1992). Non fu un caso perché è nei grandi momenti in cui si scrive il futuro di un paese che una parte degli intellettuali e delle classi dirigenti avvertono il bisogno di rileggerne il passato.
I frutti di quella stagione, innanzi tutto i suoi frutti politico-culturali, furono raccolti da Silvio Berlusconi. E oggi, esattamente dieci anni dopo, con l’esaurirsi della sua parabola politica e con il simmetrico rifluire dei diversi movimenti radicali che lo avevano contestato, la storia si è rimessa in moto. Le origini del virulento scontro di potere che si è aperto in Italia in questi mesi sul terreno dell’economia sono ampiamente illustrate nelle nostre pagine di analisi e commenti. Qui ci interessa piuttosto osservare la loro immediata ricaduta politica, preannunciata dall’impegno con cui tanti zelanti intellettuali sono tornati a rileggere la storia d’Italia. Gli stessi opinionisti che dieci anni fa indicavano nel dominio democristiano l’origine di tutti i mali della Repubblica, ci spiegano oggi come la loro causa sia nel sistema bipolare. Dalle stesse colonne da cui prima predicavano la necessità dell’alternanza, oggi predicano il ritorno al centrismo. I più smagati, ça va sans dire, si limitano a criticare l’attuale configurazione del bipolarismo e a sostenere la necessità di rafforzare il centro all’interno dei due poli, ma non c’è bisogno di avere studiato teologia con Joseph Ratzinger per cogliere nelle vicende di questi mesi la traccia di un disegno intelligente. Basta osservare le campagne stampa equamente distribuite contro Prodi e contro Berlusconi, la retorica sulle mancanze dell’attuale maggioranza sempre seguite da analoghe critiche preventive sull’inaffidabilità dell’opposizione, l’aperto sostegno di tanta parte del mondo economico e giornalistico agli strappi dei due principali partiti “centristi”, l’Udc e la Margherita. Davvero non c’era bisogno di aspettare l’intervista di Mario Monti sulla necessità di ritornare al centrismo per capire quello che era sotto gli occhi di tutti da almeno un anno: il tentativo di far fallire il progetto della lista unitaria, impedire così il consolidarsi del bipolarismo e la costruzione di coalizioni più solide e omogenee, per poi lanciare una campagna sulle inefficienze dell’attuale bipolarismo (data la mancanza di coalizioni sufficientemente solide e omogenee).
Sospesa la lista dell’Ulivo, la scelta delle primarie ha impedito però il protrarsi degli attacchi alla leadership del centrosinistra. Una volta affidata solennemente la sua legittimazione agli elettori, tutte le armi dei suoi contestatori sono risultate spuntate. Berlusconi si è così rivelato l’anello debole della catena. Le parole di Casini alla festa di Telese, sulla concreta possibilità che l’Udc abbandoni la Casa delle libertà alle prossime elezioni, non sono che l’ultimo affondo di un’offensiva che già guarda alla caduta del secondo governo Prodi. Eppure, nonostante la capacità di interdizione dimostrata finora da un così vasto schieramento di forze, proprio la vicenda del centrosinistra dimostra anche tutti i suoi limiti. La ricostituzione di un grande centro, il ricongiungimento delle due “mezze mele” di cui ha parlato Giuliano Amato, non ci sarà. Se anche Rutelli avesse in animo di perseguire sino in fondo un simile progetto, all’indomani di una vittoria elettorale dell’Unione che già si annuncia schiacciante, dubitiamo che in molti sarebbero tentati di seguirlo. Lo dimostra proprio il modo in cui è stato respinto il tentativo di ridefinire la struttura dell’Unione e di sceglierne la leadership sui giornali. Perché il centrosinistra, la democrazia italiana e le sue principali istituzioni, proprio in questi tempi cruenti hanno dimostrato di non essere aziende fallimentari dalla proprietà traballante e divisa. Grazie al cielo, non siamo ancora arrivati al punto in cui sia possibile scalare Palazzo Chigi. Per questo non siamo troppo preoccupati dei disegni più o meno intelligenti messi a punto dagli strateghi neocentristi. Ed è per questo che il 16 ottobre andremo a votare per Romano Prodi alle primarie dell’Unione, insieme a centinaia di migliaia di italiani. Perché il centrosinistra – e in definitiva la stessa democrazia italiana – non è una società per azioni, che debba farsi prendere dal panico alle prime voci di take over da parte di qualche ardito mago della fantapolitica.