Per chi conosca un po’ la storia della filosofia, il dibattito attorno alla questione dell’esistenza o meno in natura di un “disegno intelligente”, cioè di un finalismo che orienti e determini l’essere e il divenire del cosmo nel suo complesso e nelle sue parti secondo un progetto razionale e “benevolo”, è vecchio di almeno due secoli. È sorprendente che sui media e nei dibattiti pubblici la diatriba continui a essere impostata perlopiù negli stessi termini in cui venne sostanzialmente liquidata da Kant nel periodo che intercorse tra la pubblicazione della Critica della Ragion Pura e quella della Critica del Giudizio, ovvero il decennio degli anni ’80 del ‘700.
Ancora più sorprendente, tuttavia, è l’importanza che viene attribuita alla questione (e al modo in cui viene impostata) nell’ambito di un progetto di odierna apologia del cristianesimo da parte di alcuni ambienti del cattolicesimo tradizionalista italiano. Recentemente il quotidiano Il Foglio ha ospitato diversi interventi a firma di Francesco Agnoli dedicati alla questione, nei quali l’autore citava altri pensatori, opinionisti, scienziati accomunati dalla condivisione di argomenti tesi a rilevare come nella natura si diano, a loro parere, tracce evidenti di un progetto razionale, impronta di un Dio creatore.
Lascio ad altri la critica specificamente filosofica (e storica) di tali argomentazioni, e mi concentro su un punto apparentemente marginale, ma a mio modo di vedere decisivo: c’è davvero bisogno, oggi, per la prospettiva della rifondazione di una cultura cristiana o di una vera e propria nuova evangelizzazione dell’umanità (prospettive più volte richiamate con vigore da Giovanni Paolo II e, nei primi mesi di pontificato, dal suo successore) di un’apologetica fondata su quegli argomenti e su quei metodi?
Pascal, che di apologetica se ne intendeva, era anche e soprattutto un acuto conoscitore delle dottrine scientifiche della sua epoca e, nelle sue argomentazioni, non faceva certo riferimento solo a dottrine sorpassate ormai da più di due secoli. Tuttavia, affermava essere cosa “veramente singolare che nessun autore canonico si sia servito della natura per dimostrare l’esistenza di Dio”. E proseguiva asserendo che “le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci; e quand’anche fossero adatte per taluni, servirebbero loro solo per il breve momento in cui hanno dinanzi agli occhi la dimostrazione; ma un’ora dopo temono già d’essersi ingannati”.
Il pensatore francese era consapevole del fatto che l’essenziale di una religione e i parametri della sua ragionevolezza andassero cercati altrove e non nella pretesa evidenza di Dio dentro i fenomeni naturali e le loro leggi. Ciò anche perché, con un’intuizione che per molti versi mi sembra anticipi un concetto emerso nella storia filosofica occidentale in tempi ben più recenti, egli sapeva perfettamente che la “ragione” è alcunché di proteiforme e malleabile, è un metodo di conoscenza esposto agli insulti del tempo: “la ragione si lascia piegare per ogni verso”. La qual cosa è certamente un suo limite (e in tal senso la intendeva Pascal), ma non solo: ogni metodo umano si dà nel tempo e in esso inevitabilmente si trasforma, dischiudendo prospettive nuove tramite lo stesso movimento seguendo il quale ne chiude alcune, superandole e condannandole all’insignificanza.
Lo stesso Tommaso, la cui autorità è spesso esotericamente invocata dagli apologeti contemporanei, credo concorderebbe. Non è un caso che al termine di ciascuna delle sue celebri cinque vie, egli dichiari che il concetto raggiunto tramite l’indagine razionale corrisponde a “ciò che chiamiamo Dio”. Il che mi sembra possa significare: attraverso l’indagine sulle caratteristiche della natura (così come essa era concepita attorno alla metà del XIII secolo) si può raggiungere un concetto che solo pallidamente, per abbozzi, imperfettamente, in modo non conclusivo e non assoluto, può essere utilizzato per comprendere e interpretare qualcosa che è già noto (o perlomeno, che a Tommaso sembrava e risultava già noto) per altre strade. Insomma: il concetto di Dio che l’intelletto umano si è forgiato nel corso della sua storia è, come ogni altro concetto partorito dalla mente umana, uno strumento al contempo interpretante e interpretabile. Confondere l’assolutezza di Dio con quella del nostro concetto di esso è un atto di superbia che confina con la blasfemia.
Infine, l’agitazione che caratterizza gli apologeti d’oggi mi pare essere sintomo di una percezione deformata: ci si difende accanitamente solo da ciò che si teme. Ora, la “visione scientifica” del cosmo contro cui molti fautori del “disegno intelligente” lottano sembra essere perlopiù un parto della loro stessa mente, un fantasma certamente spaventoso, ma inconsistente. Esiste, nella comunità scientifica e filosofica odierna o in una sua significativa parte, la condivisione di una visione della natura univoca e univocamente indirizzata a negare la presenza di un progetto finalistico nell’universo? Scienza e filosofia non si sono piuttosto spostate altrove (e da alcuni secoli), lasciando cadere la questione citata nell’insensatezza? Non è quella degli apologeti del “disegno intelligente” una battaglia combattuta per tenere quello che si crede un avamposto strategicamente fondamentale, ma che in realtà non è più altro che un’attrazione per turisti, un monumento venerabile e ammirevole, ma lontano ormai dai fuochi di un conflitto che si combatte seriamente a chilometri di distanza?