Alec Empire, classe ‘72 e berlinese dell’ex-lato ovest, non è un novellino: quando il muro crolla ha già edificato la sua prima band (Die Kinder), studia musica classica e strumenti elettronici. La scena rave dell’ex-Berlino est cattura la sua fantasia ribelle fino a quando, nel ‘92, con Carl Crack e la cantante Hanin Elias, crea gli Atari Teenage Riot. Nome-feticcio per una band che mescola metal, elettronica, techno e industrial in una miscela che battezzano “digital hardcore”. I primi singoli sembrano un decalogo. Tra gli altri, “Hunt Down The Nazis” (’92), “Kids R United” e “Deutschland (has gotta die!)” (’93) alienano loro, all’inizio, le simpatie dei discografici e delle stazioni radio, ma li conducono dritti al primo full-lenght. “Delete Yourself”, suggerimento nichilista, completa il tutto con schegge di punk ‘77, scientemente affogato tra campionamenti e distorsioni. Il grido di battaglia è “il sistema non si riforma, si abbatte” ma con una sostenibile leggerezza dance che permette agli Atari di conquistare pubblico, locali e critica. In parallelo, Empire svolge la sua carriera solista: “SuEcide” e altri singoli anticipano il primo cd, “Generation Star Wars”, ancor più spinto nella commistione tra generi di largo consumo (techno, hip hop) e decostruzione degli stessi, sempre accompagnata da testi iconoclasti e contrari ai compromessi. Il seguito, tra esperimenti solisti e ritorni al progetto Atari (una decina di album nel primo caso, quattro in tutto nel secondo) è un’accorta serie di variazioni sul tema, a tratti interessante, a tratti ripetitiva.
“Futurist” (2005), nuova uscita in proprio di Empire, appartiene alla seconda categoria: alla soglia dei trentatré anni Alec sembra chiedersi se non sia diventato “too old to rock’n’roll, too young to die”; come risposta, spinge il pedale sull’acceleratore, accentuando il taglio punk e il ricorso a testi-manifesto. Spicca sul booklet un’orazione degna di una platea congressuale rivoluzionaria: “Il Rock’n’Roll è diventato uno zoo dove la gente preferisce cacciare gli animali, anziché ammirarli”, “Il mondo musicale sembra in preda a pessime droghe”, “Ricordo quel senso di battaglia e di destino e la gioia da che-cazzo-se-crepiamo-domattina”, fino alla brutale conclusione: “Non resta altro che vomitare per l’ultima volta in faccia al paradiso”.
A un passo dallo sbadiglio, ma sembrano le premesse per un vero massacro sonoro: invece, la brutta grafica “futurista” da anni ’80 e le piatte foto in bianco e nero (prevedibile collage di luoghi abbandonati, occhiali scuri, pose romantiche e un torso nudo tra Morrison e Danzig) anticipano il difetto di fabbrica della musica stessa. Le dodici tracce, pur non prive di fascino, soffrono del medesimo problema di overdose dei testi (ossessivi: la corruzione della società, l’individuo-massa, la reazione violenta oppure l’autodistruzione). Troppo punk, troppi effetti, troppa costruzione. Per essere un acerrimo nemico del sistema, Empire dimostra di sapere bene quanto la “teenage angst” paghi, finendo per abusarne: appoggiato a un muro sbrecciato s’atteggia a “I’m The Face” (ma aveva un anno quando gli Who incisero “Quadrophenia”), dimenticando che se il rock è arte dell’imperfezione, non tutti gli sbagli vengono perdonati. L’insincerità, ad esempio.