I colpi di Agassi sembrano più quello che sarebbero stati i colpi di Borg se Borg si fosse sottoposto per un anno a un trattamento di steroidi e metanfetamine, e avesse colpito ogni cazzo di palla quanto più forte poteva”. Questa è la calzante definizione che David Foster Wallace – in Tennis, tv, trigonometria, tornado – dà del tennista di Las Vegas. Come Björn Borg, anche Andre Agassi basa il suo gioco sugli scambi da fondo campo e su un temibile rovescio bimane, ma ha in più la capacità di buttare dall’altra parte della rete qualsiasi oggetto volante passi ad altezza-racchetta.
Agassi ha attraversato gli ultimi vent’anni di tennis trasformando la propria immagine nel corso delle stagioni come un’autentica icona pop. Il capellone dalle assurde magliette che aveva fatto dell’image is everything un credo si è trasformato nel calvo signor (Steffi) Graf: l’unica costante sono state le vittorie. E’ uno dei cinque giocatori ad aver vinto tutti e quattro i tornei del Grande Slam (e l’unico ad averlo fatto su quattro superfici diverse), ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta ’96 e sessanta tornei del circuito ATP. Molte volte lo si è dato per finito, per colpa di infortuni, mancanza di concentrazione o Brooke Shields, ma è sempre riuscito a rialzarsi. Come negli U.S. Open conclusisi ieri, nei quali il trentacinquenne Agassi era sì testa di serie numero 7, ma non godeva dei favori del pronostico, considerando anche le sempre più insistenti voci su un suo prossimo ritiro. In campo però ha sfoderato un tennis degno dei fasti del passato. E’ uscito indenne da tre battaglie consecutive al quinto set: dapprima l’ottavo di finale contro il belga Xavier Malisse, poi il quarto col redivivo talento americano James Blake (nel quale, persi i primi due set con un doppio 3-6, ha ribaltato il risultato chiudendo 6-3 6-3 7-6), infine la semifinale con l’altro giovane connazionale Robby Ginepri. Tennisti con oltre dieci anni in meno sulle spalle avrebbero dovuto prevalere, se non con l’abilità tecnica, almeno con la tenuta fisica. Invece il vecchio Agassi ha saputo essere paziente e, seppur con un fiatone incipiente, è riuscito a farsi strada fino alla finale. E nella finale contro il solito, chirurgico Federer poteva fare ben poco, ma il pubblico di New York ricorderà comunque a lungo queste due settimane di tennis.
La cavalcata di Agassi fa idealmente il paio con altri due celebri, inattesi exploit di vecchi campioni sul veloce di Flushing Meadows. Uno è la clamorosa semifinale di Jimmy Connors nel 1991 (all’alba dei 39 anni), con l’altrettanto clamorosa rimonta da 2-5 a 7-6 nel quinto set del quarto di finale contro Krickstein. L’altro è la vittoria nella finale 2002 di Pete Sampras, ultimo suo match in carriera e ultimo atto della principale rivalità tennistica degli anni Novanta, quella con lo stesso Agassi. Si potrebbe obiettare che se atleti a fine carriera riescono ancora a fare questi risultati è per via dello scarso livello medio del panorama tennistico attuale. Ma di fronte a un signore che rispedisce al mittente pallate a 240 chilometri all’ora senza fare una piega e che ha la carica agonistica di un ragazzino, non c’è età che tenga. Come ha dichiarato Ginepri al termine della semifinale: “E’ questo il motivo per cui è ancora in campo a trentacinque anni: crede ancora di poter competere con chiunque”. E ne ha ben donde.