Nella giornata di giovedì, a Bruxelles, si sono riuniti i leader dei partiti membri delle grandi famiglie politiche europee per preparare il Consiglio che sarebbe cominciato in serata. All’Academie Royale de Belgique, dove si svolgeva il vertice del Ppe, si sono ritrovati allo stesso tavolo Silvio Berlusconi e Mario Monti, quest’ultimo invitato dal presidente del partito Wilfrid Martens a titolo personale. Un’eccezione alla procedura non priva di un contenuto politico.
A tredici anni dall’entrata di Forza Italia nel Ppe, Berlusconi siede, ormai, al tavolo dei leader conservatori europei come la pecora nera della famiglia, il parente col quale è sconveniente farsi vedere in giro. Eppure nel ’98 era stato proprio il Ppe (su ispirazione dell’allora Cancelliere tedesco Helmut Kohl) a offrire a Berlusconi il salvagente della legittimazione europea, ottenendo in cambio i numeri decisivi per conquistare la maggioranza a Strasburgo. Vengono così al pettine i nodi dell’alleanza che, specialmente nell’ultimo decennio, ha legato in Europa populisti e conservatori.
Al di là della pubblica scomunica di Berlusconi, però, non sembra che i vertici del Ppe siano disposti a rivedere la strategia che nell’ultimo decennio li ha portati al governo quasi ovunque in Europa. Avanti, dunque, la faccia presentabile di Monti per aggregare, al riparo dai toni antieuropeisti di Berlusconi, quella stessa area di centrodestra che proprio al Cavaliere aveva garantito la maggioranza dal 2001 al 2006, schiacciando il centrosinistra in una posizione minoritaria. Ecco che il gattopardismo dei leader della destra europea svela coma l’Italia in fondo sia sempre stata – nonostante i suoi deficit istituzionali, unici tra i paesi dell’Europa occidentale – un paese normale. Il che è, ovviamente, tutt’altro che consolante.
Questa volta, però, ci sono buone ragioni per augurarsi che la mossa dei conservatori europei non riesca in Italia. Queste ragioni hanno essenzialmente a che fare con il Pd, e con le scelte che il suo gruppo dirigente ha compiuto a partire dal congresso del 2009. Il Pd, infatti, è oggi una forza la cui vocazione al governo prevale su quella che era la sua “vocazione maggioritaria” (e nei fatti isolazionista), e perciò difficilmente può essere di nuovo relegato nello schema del bipolarismo coatto berlusconiano.
È stata la posizione assunta dal Pd (tra non poche proteste, anche al suo interno) a favorire la formazione di un centro autonomo, occupato da forze europeiste che riconoscono i valori fondanti della Costituzione, e che sono diventate interlocutori preziosi sia durante l’opposizione al governo Berlusconi sia durante il sostegno al governo Monti. Il Pd, insomma, anche grazie alla parziale ricostruzione della sua organizzazione territoriale e del suo ancoraggio sociale, è oggi il perno del sistema politico italiano, e Monti lo sa. Per questo potrebbe scegliere di non assumere la guida dell’ennesima riedizione dello schieramento dei conservatori e dei populisti, e tenersi le mani libere per svolgere, dopo le elezioni, un ruolo diverso.
La “strategia dell’attenzione” del Pd verso Monti e le formazioni del centro moderato presenta, ovviamente, dei rischi. Il più ovvio è quello che gli sforzi compiuti non siano sufficienti, e che le forze moderate finiscano ancora una volta per confluire con quelle della destra conservatrice e dei populisti. Ma questo scenario non sembra, oggi, il più probabile, con buona pace di Merkel e Berlusconi (i cui interessi giovedì non erano forse così lontani, nonostante l’ostentata freddezza delle Cancelliera), e tuttavia anche in queste condizioni il Pd avrebbe oggi le sue carte da giocare alle prossime elezioni.
Ben più insidioso è invece il rischio di appiattire la dialettica politica in uno scontro tra difensori e detrattori della Costituzione sul piano nazionale, e dell’Ue sul piano europeo. È vero che oggi la difesa della Costituzione e dell’integrazione europea sono trincee che non possono essere abbandonate. Ma è pur vero che la Costituzione italiana e i Trattati Ue contengono gli spazi per una dialettica tra interessi che deve essere interpretata anche sull’asse destra-sinistra. La compressione sistematica di questi spazi rischia di comportare, a lungo termine, la marginalizzazione della sinistra.
Impostare l’ennesima campagna sul tema dell’integrazione europea come se fossimo ancora agli anni Ottanta – e oggetto del dibattito non fosse ormai la domanda: di quale Europa stiamo parlando? – potrebbe essere un errore strategico. Il centrosinistra non può schiacciarsi nella difesa dell’attuale Unione europea, portata sul binario morto dell’austerity e paralizzata dall’uso del metodo intergovernativo a causa delle scelte politiche dei conservatori. Deve essere l’europeismo progressista, come alternativa non solo al populismo antieuropeo, ma anche all’europeismo conservatore, a ispirare le parole d’ordine della campagna elettorale e a fondare il patto di governo dopo le elezioni. Coinvolgere Monti e i moderati in questo percorso (al prezzo dei necessari compromessi) è la vera, complessa sfida che il Pd si trova davanti.