Eccola, finalmente, l’agenda Monti. In occasione della conferenza stampa di fine anno Mario Monti ha enunciato in modo chiaro le linee che hanno guidato l’azione del suo governo, cui si ispireranno le forze che intendono proseguire tale indirizzo anche dopo il voto. Una chiamata a raccolta in nome di una visione liberal-moderata che fino a questo momento in Italia non aveva saputo farsi proposta politica autonoma. Pertanto, al di là dei molti punti di contatto su una varietà di temi che vanno dalla legalità alla riforma della pubblica amministrazione, alla valorizzazione del potenziale produttivo del paese, le proposte del documento “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa” – ma ancor di più le indicazioni fornite da Monti durante la conferenza stampa – risultano estremamente utili anche a chiarire in cosa l’agenda Monti si differenzi dalla proposta politica del centrosinistra.
La differenza non riguarda il tasso di europeismo, visto che la posizione espressa (rispetto dei patti definiti in sede europea, ma insieme diritto di critica e dovere di contribuire attivamente a una revisione dell’attuale indirizzo di politica economica dell’eurozona) sembra coincidere con quanto più volte affermato sia da Pier Luigi Bersani sia dal suo responsabile economico Stefano Fassina. La divergenza è su due punti in particolare: il lavoro e l’equità. Sul primo, Monti ribadisce la convinzione che la crescita economica possa essere incoraggiata da un’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro; insiste nel sostenere che le protezioni ad oggi offerte al lavoro dipendente siano un retaggio del passato; riafferma l’idea che il drammatico dualismo presente nel mercato del lavoro italiano vada risolto riducendo le tutele dei lavoratori a tempo indeterminato piuttosto che rendendo meno conveniente l’abuso del ricorso a forme di lavoro precario e temporaneo.
Non è una posizione isolata né nuova. Attribuire il rallentamento della crescita in Europa alla rigidità del mercato del lavoro è un tratto tipico di quella che è stata la visione ampiamente prevalente nell’ultimo ventennio in politica economica. Purtroppo si tratta di una visione semplicistica: trascura il fatto che in un’economia manifatturiera la stabilità della relazione di lavoro è condizione essenziale per incoraggiare gli indispensabili investimenti in capitale umano che garantiscono produttività e innovazione; non tiene conto del fatto che paesi come la Germania devono anche alla politica dei redditi consentita dalla centralizzazione della contrattazione la capacità di trarre vantaggio dall’unione monetaria; ignora infine i risvolti negativi che un mercato del lavoro liberalizzato avrebbe in termini distributivi.
Il secondo punto è l’equità, ed è significativo a questo proposito l’esplicito richiamo del presidente Monti a un articolo dell’Economist che invoca l’abbandono delle tradizionali politiche redistributive basate su progressività del sistema fiscale e welfare. La prospettiva di Monti non esce in effetti dallo schema tradizionale dell’alternativa tra equità ed efficienza, per cui la redistribuzione, ancorché auspicabile, rappresenta un costo in termini di crescita. Secondo tale impostazione l’equità desiderabile è solo quella che può derivare dall’eliminazione dei monopoli e le posizioni di rendita, garantita dal mercato e dalla concorrenza. E l’intervento pubblico deve essere orientato in modo selettivo alle fasce più bisognose, con buona pace dell’universalismo che caratterizza il modello sociale europeo.
Su lavoro ed equità l’agenda Monti si distingue dunque in modo significativo dall’agenda del centrosinistra. Anche ragionando nella prospettiva di una possibile futura alleanza di governo tra il Partito democratico e le forze che si ispirano all’agenda Monti, è bene tenere presente questa distanza, che peraltro si colloca in modo naturale sull’asse di confronto che in tutto il mondo impegna forze progressiste e forze moderate.