L’apologo può essere riproposto così: quando ci riuniamo in assemblea, cari concittadini, per discutere della costruzione di nuovi edifici pubblici, chiediamo il parere di architetti e urbanisti; quando dobbiamo deliberare intorno alla costruzione di navi, chiediamo consiglio agli ingegneri navali, e se si alzasse su a dar consigli uno che non possiede competenze in merito, noi tutti rideremmo e fischieremmo, pregandolo poi di tacere o di allontanarsi, non importa se sia giovane o bello o ricco e potente. Quando invece si tratta di faccende amministrative e politiche, in assemblea prendono la parola indifferentemente l’architetto e il fabbroferraio, il commerciante e il calzolaio, il ricco e il povero, il nobile e il plebeo. E nessuno che rida o faccia schiamazzi.
È la democrazia, bellezza, diremmo a Platone (è lui che racconta l’apologo, nel Protagora). Di questi tempi, però, non tutti se ne rammentano. Si preferisce tuonare contro il relativismo di un metodo che mette tutti in condizione di alzarsi in assemblea e di dire la propria, svuotando così la deliberazione politica di verità: quale verità può esservi infatti in una decisione presa a maggioranza? A qual titolo si parla in un’assemblea democratica, se non al semplice titolo di cittadino, conseguibile indipendentemente dai gradi di saggezza e di scienza? E non sono più forti e virtuosi quei popoli che invece di affidarsi al mutevole gioco delle opinioni, all’incompetenza del cittadino qualunque, si affidano a una guida? Non bisogna forse essere guidati: alla verità e dalla verità?
In questi tempi, in cui è difficile spiegare che non affidarsi a una simile guida non vuol dire affatto rendere equivalente e insensata ogni scelta, è difficile pure imbattersi in un sincero elogio del cittadino comune. Quando non sono le guide morali e spirituali a mettere i cittadini in condizione di inferiorità, di solito infatti ci pensano tecnici, esperti e scienziati. Può capitare persino che i primi si alleino (strumentalmente) ai secondi, come è accaduto nel recente caso dei referendum: lo slogan “sulla vita non si vota” significava infatti che le decisioni intorno alla procreazione non possono essere prese da cittadini qualunque, e a rincalzo veniva portato l’argomento che i quesiti ponevano questioni troppo difficili perché chiunque potesse prendere la parola e votare.
E quali questioni non sono troppo difficili? Cosa ne sa il cittadino comune di mercato mondiale o di geopolitica? Come può il cittadino comune formarsi un’idea adeguata dei futuri scenari mondiali, e votare e deliberare con cognizione di causa?
Per fortuna, un elogio del cittadino comune è comparso: sulle pagine del Corriere della Sera (11/9), a firma di Tommaso Padoa Schioppa. Padoa Schioppa trova rassicurante e considera motivo di profonda fiducia che in una democrazia siano i cittadini a doversi formare una propria opinione per orientare le scelte dei governanti. “Sbaglierebbe [il cittadino comune] a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia e ai detentori del potere”. Di solito chi sta in alto vede più lungo; Padoa Schioppa sospetta invece che specialisti e governanti abbiano uno sguardo ben più miope del cittadino comune, come se buon senso e senso comune si alleassero tra loro naturalmente insieme.
Purtroppo però non è sempre così. Sarebbe d’altronde singolare che la più antimetafisica delle forme politiche si assicurasse su una metafisica fiducia nell’alleanza naturale fra il buon senso e il senso comune. Ma questo significa che in democrazia la cura di ciò che è comune, in quanto è buono, è un compito, e non un dato. E significa pure che non si può non avere un’idea problematica della democrazia. Essendo la democrazia un compito, qualcosa che dunque non c’è ma viene sempre formandosi, essa, che deve rimettere solamente a se stessa la cura di ciò che è comune – sotto pena di non esser più democrazia – è al contempo rimandata ad altro, a quell’altro per cui, non essendoci ancora, viene appunto formandosi, in modo che il senso comune sia educato al buon senso.
In democrazia, siamo abituati a dire, siamo tutti a un tempo governanti e governati. Ma si tratta, com’è ovvio, di una finzione, che il paradosso sopra esposto dovrebbe aver messo bene in evidenza. Al di là della formula, cosa può mai voler dire che ciascuno è il governante di sé? Tuttavia, questa formula ha una virtù: evita che l’altro sopra evocato prenda un nome e un’identità. Che il paradosso, che la formula nasconde, venga infine sciolto, e a educare il senso comune ci pensi insomma qualcuno. Una guida, appunto.
Prima dicevamo che la democrazia finisce spesso sul banco degli imputati perché manca di verità. Ora scopriamo che persino la sua verità politica, l’identità di governante e governato, non è che una finzione. Ma bisogna pensare esattamente il contrario. La democrazia è così “vera”, così “sincera”, che demistificando ogni verità sopporta anche la demitizzazione della propria verità. Vive veramente in condizioni di non verità. E per questo, e non c’è altro modo, può accadere che ciascuno prenda la parola in assemblea, senza che nessuno rida o schiamazzi.