In principio era il Verbo, e il Verbo fece, nientemeno, una promessa. Ora, si può ben discutere sui contenuti della promessa e sui tempi e i modi del suo mantenimento, ma non sul fatto che una dimensione di natura prescrittiva sia originariamente legata all’uso della parola. Perciò, la scena che Agostino allestisce nelle Confessioni – a proposito dell’apprendimento del linguaggio: le parole denominano gli oggetti e il bambino impara a parlare apprendendo i nomi degli oggetti – quella scena è del tutto campata in aria. «Di una differenza tra tipi di parole Agostino non parla», notava Wittgenstein: come se Agostino non conoscesse i differenti impieghi del linguaggio, e soprattutto come sia necessario, perché qualcuno impari qualcosa, che ci sia fiducia, che si dia retta e che si presti ascolto. È quello che si chiama legame sociale, che si stabilisce (non solo ma anche) nel linguaggio e col linguaggio.
Ebbene, quel legame si rinnova ogni volta, o almeno si dovrebbe rinnovare, a valle rispetto alle altezze teologiche dalle quali abbiamo cominciato – nel corso di una campagna elettorale. Chi prende la parola in campagna elettorale non lo fa infatti per descrivere, lo fa per impegnarsi. Cioè: promette. Tutta la campagna elettorale è una promessa, non una descrizione e neppure una previsione. Certo, è da vedere se le promesse verranno poi mantenute, se siano credibili e se saranno credute, ma fare una campagna elettorale all’insegna dell’«io non prometto nulla» significherebbe non farla, puramente e semplicemente.
Promettere è infatti una certa maniera di fare, cioè di legare a sé, di coinvolgere e persino di trascinare. Promettere è compromettersi. Chi non promette rinuncia a farlo: non è una rinuncia priva di conseguenze. La linguistica contemporanea ha da tempo appuntato la sua attenzione sugli atti linguistici performativi, cioè sulle cose più diverse che si possono fare con le parole, per scoprirvi dimensioni fondamentali dell’umanità dell’uomo (che vuol dire: cose non facendo le quali non potremmo neppure dirci uomini), e invece sembra che le uniche cose che ci sono da fare stanno fuori dalle parole. Siamo stufi di parole, vogliamo i fatti! D’accordo, ben detto: chi mai intende contraddire una simile, ragionevolissima richiesta? Ma con essa non prendiamo semplicemente di mira le parole false (e le promesse non mantenute), ma anche le parole vuote, le parole infelici: nell’ipotesi dunque che anche le parole possano (potrebbero) essere piene, riempire una vita, e motivare un impegno collettivo.
Nanni Moretti lo diceva in quella celebre scena di un suo film: le parole sono importanti. Ma lo sono anche per quello che fanno, non semplicemente per quello che dicono. Provate ad esempio a mangiare, o ad amare, e provate a farlo una prima volta senza parole (o magari da soli: mi riferisco in questo caso al mangiare), e un’altra a farlo con le parole: quale delle due versioni vi piace di più? E, notate: le parole che vi tengono compagnia, nell’uno e nell’altro caso, non sono parole che si limitano a descrivere in maniera piatta e anodina quello che state facendo, ma fanno pur’esse qualcosa, producono effetti e danno senso a quello che fate (non starò a dirvi quale).
Così anche quando si tratta del voto. Ci sono i programmi, i quali – lo dice l’etimologia della parola – rappresentano proprio «le cose scritte prima», cioè gli impegni e le promesse che un partito o una coalizione assume davanti agli elettori. Potranno essere più o meno dettagliati, più o meno seri. Ma riflettete ora su cosa significherebbe togliere a quei programmi tutto ciò che significa lo scriverlo «prima e davanti»; e domandatevi anche se non sia proprio questa procedura (erede di antiche promesse, di arcaici sacramenti e giuramenti) a dare forza al «gramma», al contenuto, piuttosto che il contrario. Non c’è bisogno che vi fornisca io la risposta.
Orbene, Pier Luigi Bersani ha più volte invitato in campagna elettorale a guardare gli elettori all’altezza degli occhi, a metterci la faccia. Domanda: ma perché la mettiamo, se non promettiamo? Quale altro significato può avere un investimento personale, una richiesta di fiducia, un impegno in prima persona? Assecondare l’idea che promessa sia solo l’annuncio mirabolante di una proposta choc e non la maniera di stabilire un legame, si metta infine piede o no sulla terra promessa, corrisponde forse a una visione particolarmente sobria della politica, ma rischia anche di apparire una rinuncia a interpretarla senza paura, senza timidezza e senza complessi di inferiorità.
E ora diamoci sotto.