La parola di Ruini e l’anello di Gige

Conoscete la storia dell’anello di Gige? Tanto tempo fa, visse in Lidia un pastore che, avuta la ventura di inabissarsi nelle viscere della terra, trovò al dito di un gigante morto un anello magico, capace di renderlo invisibile. Forte di questo potere, Gige sedusse la regina e col suo aiuto uccise il re, per poi prenderne il posto. Così la racconta Platone. Erodoto dice invece che Gige era lo scudiero del re di Lidia, al quale il sovrano concesse di vedere, nascosto, il corpo nudo della consorte. Quella notte però Gige fu scoperto dalla regina, che tuttavia gli offrì la salvezza: invece della morte, per avere visto ciò che non doveva vedere, gli propose di uccidere il re, e di prenderla in sposa.
Come si vede, né Erodoto né Platone prendono esplicitamente posizione sui Pacs, i patti civili di solidarietà che il centrosinistra sembra intenzionato, in caso di vittoria elettorale, a introdurre nella legislazione italiana, per regolamentare lo stato delle coppie di fatto. Tuttavia, la storiella da loro tramandata insegna alcune cose che è bene tenere a mente.
La prima cosa: vi è un nesso molto stretto fra sessualità e potere: prima di uccidere il re, Gige giace con la regina. La seconda: detiene il potere chi dà la vita. Potere è sinonimo di fecondità: Gige penetra la terra, e la donna. Peraltro, la vicenda di Gige ha proprio l’aspetto di una contesa per il possesso della donna – come accade anche nel più famoso mito di Edipo. La terza: il potere è maschile, ma a conferire il potere è la donna: con l’aiuto della regina (nella versione di Erodoto: grazie alla sua proposta indecente), Gige uccide il re. La quarta: la genealogia del potere mostra che alla sua origine c’è una violenza: Gige inaugura una nuova dinastia, fondata su un assassinio. La quinta e ultima: l’esercizio del potere è legato in qualche modo all’invisibilità. Gige possiede l’anello che rende invisibili, oppure (nella versione di Erodoto) è l’unico ad avere visto l’invisibile, il corpo nudo della regina. Non c’è imperium, dunque, senza arcanum.
Tutto ciò detto e considerato, noi siamo in democrazia: ebbene, che ve ne pare di un simile modello politico? Quanto vi convince quest’idea ancestrale del potere? Badate, non bisogna affatto essere ingenui: il mito non è una bella favola ad uso di ignoranti. Il mito non racconta solo l’origine del potere, ma anche il potere delle origini: come cioè non vi sia potere che non si legittimi all’origine, e come le origini, ben lungi dall’essere tramontate e scomparse tanto tempo fa, ancora oggi costituiscono lo spazio di significazione della politica.
Ma che lo spazio resti il medesimo, non vuol dire affatto che non si possano iscrivere nuovi significati in quello spazio. Non vuol dire, insomma, che la violenza debba essere sempre un assassinio, o che la donna debba restare sempre invisibile (si comprenderà, forse – sia detto en passant – perché la questione dei diritti della donna sia oggi una questione centrale per le democrazie). Il primo a rendersene conto fu proprio Platone, che riprese il mito di Gige non per gusto arcaicizzante, ma perché voleva una nuova fondazione per la polis governata dal re-filosofo, e doveva liquidare una volta per tutte, battendola sul suo stesso terreno, la fondazione concorrente del mito. Platone voleva tirar su una città governata dal potere della parola, dal logos razionale universale, e per far questo doveva affondare nel passato la genealogia mitica del potere, fondata sul sesso e sul sangue. Lo scandalo della comunione delle donne e dei beni – condizioni per edificare un’improbabile città “ideale” – ben lungi dall’essere una celebre boutade, segnano invece l’atto di nascita della civiltà occidentale: quella che un giorno sarà democratica, e che mai sarebbe potuta nascere senza che tra la scena naturale del desiderio e il luogo pubblico del potere fosse posto lo schermo razionale, cioè convenzionale, della parola, del diritto, dell’economia. Per essere tutti uguali e avere uguali diritti occorre infatti che sulla terra, sul sangue e sulla differenza sessuale prevalgano i segni universali della parola, della legge e della moneta. (Gige, per parte sua, diviene, nel mito, l’inventore del denaro – il nuovo arcanum del potere).
E i Pacs? Ora avrete le idee più chiare, credo. Neanche monsignor Caffarra ieri, o il cardinal Ruini oggi, se la sentono di negare l’evidenza, che si tratta cioè di estendere diritti e tutele anche a chi non vuole o non può contrarre matrimonio: dai diritti di assistenza sanitaria alle tutele in caso di separazione, passando per la reversibilità della pensione o per i diritti di successione. Quel che viene avversato è il fatto che, affiancando all’istituto matrimoniale altre forme giuridiche per molti aspetti equivalenti e permettendo persino agli omosessuali di avervi accesso, sia minato un ordine simbolico ancestrale, e i tradizionali ruoli che in quell’ordine vi hanno l’uomo e la donna.
Domanda: vi convincono, quei ruoli? Papa Benedetto XVI ha ragione: la religione non è mai stata un affare strettamente privato. Ma, se è per questo, non lo è mai stato nemmeno il costume sessuale. Oppure, se lo è stato, lo è stato nella stessa misura e per lo stesso tempo in cui lo è stato la religione: per quello stesso spazio di tempo esiguo che chiamiamo modernità.
Domanda: cosa vogliamo fare di questa modernità, cari i miei concittadini?