Rome, le Idi di Dynasty

Abbiamo perso i nostri anni migliori nel morboso tentativo di seguire le cospirazioni e gli inganni di ricche famiglie americane, come i Carrington di Dynasty o gli Ewing di Dallas. E invece avevamo già tutto in casa nostra, da almeno duemila anni. Intrighi, tradimenti, segreti inconfessabili, tragiche e fortunate casualità, era tutto già scritto. E infatti per la serie “Rome”, che va in onda sulla Hbo, abbiamo dato in prestito alla produzione americana personaggi illustri, fatti storici e pure gli studi di Cinecittà; loro hanno messo tutto il resto e l’hanno fatto diventare un telefilm di successo (tanto che, dopo sole quattro puntate, è stata già confermata la seconda stagione, le cui riprese inizieranno nel marzo prossimo). Che al riguardo in America la sapessero lunga l’avevamo capito da parecchio tempo, non a caso uno dei più celebri kolossal hollywoodiani di tutti i tempi è “Cleopatra”, e quando si sceglie Elizabeth Taylor e Richard Burton per impersonare Cleopatra e Antonio, vuol dire che si è capito tutto di quel che interessa veramente al pubblico. Non che negli anni non ci avessimo provato anche noi italiani, ma – diciamo la verità – dei polpettoni a forma di miniserie non è mai importato niente a nessuno.
La loro Roma, invece, è terribilmente affascinante. L’atmosfera è cupa e disperata, i costumi naturalmente dissoluti. La bramosia di potere e l’invidia per chi lo detiene sono il perno della trama. Non c’è traccia della grandiosità della Roma che abbiamo studiato sui libri, se non nel rispetto che (alcuni) hanno verso le istituzioni della Repubblica e nelle spettacolari scenografie, incredibilmente verosimili nei templi e nelle case sfarzose come nei vicoli più poveri. E’ chiaro fin da subito che il punto di forza del telefilm è la caratterizzazione dei personaggi: Azia, madre di Ottaviano (che nel telefilm è un adolescente saputello) dipinta come fosse Alexis Carrington; Cicerone è un individuo pavido e calcolatore, Pompeo invidioso e inadeguato. Così già alla terza puntata, quando Cesare passa il Rubicone, “Alea iacta est” è ormai solo una reminescenza lontana che riecheggia nella nostra mente. Perché a quel punto quel che ci tiene incollati alla tv non sono le gesta delle sbiadite figure storiche, ma è il destino dei nostri protagonisti. E per una serie non potrebbe accadere di meglio.
Malgrado questo, il telefilm riesce a essere illuminante e a tratti persino vagamente istruttivo. Come quando Pompeo, geloso della fama conquistata da Cesare, ordisce una manovra per fare in modo che il senato voti una mozione che lo metta al bando come traditore, con l’unico intento di fargli arrivare un messaggio inequivocabile sul suo isolamento politico, ma contando segretamente sul veto di Marco Antonio, buon amico di Cesare, per bloccarne l’approvazione. In questo modo, come confida a Cicerone e Catone il diabolico Pompeo, riusciranno a spaventare Cesare senza scatenare una guerra civile. Per la cronaca, il piano fallirà miseramente scatenando per l’appunto la temuta guerra civile, con scene di panico lungo le strade, folle inferocite e aristocratici costretti ad abbandonare le loro case. Ma qualcuno avrebbe potuto chiamarlo un segnale di discontinuità.