A guardare i media tedeschi e a giudicare i comportamenti dei politici pare proprio che il pano inclinato del dopo elezioni vada verso la Grosse Koalition. Al di là delle dichiarazioni di rito dei dirigenti della Cdu rinfrancati dal risultato di Dresda, è Schröder ad avere aperto davvero i giochi questa settimana dicendo che si ritira e si accontenta di un vicecancellierato per il suo compagno Müntefering se i democristiani ritirano la Merkel. A difendere la Merkel rimane solo Stoiber, della Csu. Un significativo paradosso. Vista la scarsa stima del bavarese per la Merkel questa sembra infatti una tattica adottata per non bruciare troppo presto candidati più graditi, e per poter dire: “Io ti ho difesa finché ho potuto, ma non c’è stato niente da fare”. Oltretutto non avrebbe senso che Stoiber insistesse su Angela Merkel cancelliere dopo che questa (e Stoiber ne è stato certo contento) ha preso assai meno voti di lui quattro anni fa. E’ ben più probabile che egli usi presto questo argomento per rimpiazzarla con qualcuno a lui più vicino. Non basta: Westerwelle della Fdp, da parte sua, dichiara che ormai la Grosse Koalition è cosa fatta. Già, perché la coalizione “giamaicana” con i Verdi sembra soprattutto a lui, che con i verdi non è d’accordo su nulla, più un incubo che un’opportunità. La Grosse Koalition gli darebbe almeno un più netto profilo e più voti di protesta liberista, cosicché la Cdu-Csu dovrebbe pagargli caro una nuova alleanza quando, verosimilmente presto, l’esperienza di governo con la Spd si dovesse esaure.
Poi, più avanti nella settimana, capita questo: alla trasmissione televisiva Berlin Mitte (sorta di “Ballarò” più conciso e sobrio, in cui il pubblico però appalude o disapprova gli interventi) Seehofer della Csu biasima implicitamente la Merkel dicendo: “Un grande partito popolare come noi non può parlare solo di economia, ma deve parlare anche di dimensione sociale” (applausi). Accanto a lui Althaus (Cdu e ministerpräsident della Turingia), che pure, come la conduttrice fa prontamente rilevare, era nella squadra stretta della Merkel, non la difende e parla d’altro. Segnali, solo segnali, ma chiari. In trasmissione ci sono anche il capo della confindustria (che vorrebbe una coalizione “giamaicana”), Gregor Gysi della Linke e Clemens, ministro uscente spd dell’economia. Mai che quest’ultimo si scontri con i due democristiani: tutta la sua energia va a schiaffeggiare Lafontaine, Gysi e tutta la loro compagnia di neospartachisti, verso cui però non evoca i corpi franchi di Noske, ma sfodera un sorriso sardonico-sprezzante. Clemens nega che ci sia stata davvero una scissione rilevante a sinistra, respinge le accuse di neoliberismo (“Abbiamo impiegato enormi risorse per rimediare all’inconsistenza dei contributi assicurativi e previdenziali dei nuovi Länder dell’est”), e implicitamente conferma quanto già Schröder ha detto alle 06.58 del giorno seguente alle elezioni: “Con Die Linke mai”.
Queste le tendenze, a quanto pare. Però il contrasto a sinistra sicuramente riceve maggiori attenzioni nelle grandi vetrate della Willy Brandt Haus, comando della Spd. Non sarà certo sfuggito che la Spd va bene fra i giovani al primo voto, dove con il 39% è molto sopra la media e primo partito (Linke all’8%). Fra i disoccupati, però, il rapporto è Spd 30%-Die Linke 22%, all’ Est 30,5% a 25,4%. Allarghiamo lo sguardo: in Europa, questo il segnale, le welfare societies nazionali ricevono conferme, e le destre paiono pagare cara la loro alleanza con il neconservatorismo Usa. Tuttavia, le socialdemocrazie faticano. Perché i modelli sociali nazionali avrebbero bisogno, in questa fase di trasformazione, di una politica industriale e di domanda europea. In cosa consistono infatti le riforme dell’Agenda 2010 di Schröder? Nella sempre più severa attivazione dei disoccupati che recepiscono indennità e sussidi. L’attivazione (sebbene più blanda) è un classico della socialdemocrazia. Solo che un tempo, grazie alle politiche keynesiane nazionali e alla regolazione internazionale dei mercati si poteva praticamente assicurare che avrebbe portato a un lavoro più gratificante del precedente. Oggi, in vaste zone dell’Europa, e persino della Germania che continua a essere potenza esportatrice, non più.
Di qui le proteste “da sinistra”, nelle urne e nelle piazze, contro il governo rosso-verde di Berlino. Di qui il fatto che i giovani alla prima occupazione votano serenamente per la Spd (non hanno nulla da perdere dalle nuove regole), mentre chi teme la discesa di qualifica e il ridimensionamento di Siemens e Mercedes (all’Ovest) e la stasi economica (gli Ossies) protestano. Insomma l’attivazione, strategica riforma, miete più consenso se non viene percepita come un percorso per rendere meno inaccettabili peggiori condizioni di lavoro. Gli scandinavi ci stanno riuscendo: la maggiore cogenza del sistema è stata accettata perché nella maggioranza dei casi la lunga tradizione di politiche industriali e sulla ricerca (in Svezia e Danimarca), o il petrolio (in Norvegia) garantiscono perlopiù un buon impiego alla fine del percorso di assistenza-attivazione. Ma la mancanza di innovative politiche di domanda europee (alla Delors, insomma), porta nordici e britannici all’autosufficienza e all’euroscetticismo, la Germania (e la Spd) a faticare eccessivamente, l’Italia (che peraltro un vero sistema di indennità deve ancora costruirlo) alla flessibilità povera “da sommerso”, e i nuovi paesi membri al dumping fiscale.