R omanzo criminale è un bel film che si fa guardare. Il fatto è che ci vorrebbe un Immanuel Kant della celluloide che scrivesse una Critica della Ragion Cinematografica illustrando come, senza riscontri empirici, sia insensato partorire teorie politiche inverificabili e pertanto indecidibili a mezzo pellicola. Va detto che il film di Michele Placido riesce a dribblare quasi sempre pesanti cadute di stile e ineleganti concessioni alla retorica complottarda: non è una roba tipo Piazza delle Cinque Lune, per intenderci. Tuttavia, quando cede alla tentazione perde qualità e tensione, si lascia guidare dal luogo comune, dal “già detto” e “già visto”, la qual cosa è esattamente ciò che dovrebbe evitare come la peste un film che voglia, come ogni noir che si rispetti, inchiodare lo spettatore alla poltrona.
Si potrebbe obiettare: trattasi di fiction. E uno degli scopi della fiction (non il meno nobile) è proprio costruire ed elaborare il verosimile laddove il vero non soccorre per insufficienza di prove. Tutto giusto. Quando però il cortocircuito tra pretesa di verità e verosimiglianza è messo in atto un po’ truffaldinamente dagli stessi autori, diffidenza e critica in merito diventano non solo legittime, ma opportune. Il punto è l’identità del principale autore di Romanzo criminale: finché chi dice “Io so”, anche e soprattutto in una situazione di insufficienza di prove, è un intellettuale estraneo al Palazzo come Pier Paolo Pasolini, il suo grido merita di diventare simbolo di un’epoca di storia italiana e di una forma mentis dell’opposizione politica al medesimo Palazzo; quando l’autore dell’ “Io so” è un magistrato (Giancarlo De Cataldo, oltre che autore del libro da cui il film è tratto, è accreditato nei titoli di testa come soggettista e sceneggiatore) che ha esercitato la propria funzione di giudice in diversi processi, alcuni dei quali di grande riscontro mediatico, la cosa risulta assai più inquietante e molto meno ingenuamente accettabile, e il sottotesto diventa: “è vero, proprio – e solamente – perché è verosimile”.
Meno irritante, sebbene altrettanto discutibile, è lo spunto poetico-retorico con cui Placido apre e chiude il film: il crimine visto come via di affermazione per i reietti della società che decidono, jenseits von Gut und Böse, di “prendersi Roma” con la forza in nome di una solidarietà infantile e lirica, che la vita reale tenterà di spezzare in ogni modo fino all’inevitabile catastrofe finale. Intendiamoci, Scorsese e Leone restano di un altro pianeta. Tuttavia, la parte dedicata allo scandaglio del legame tra i “bravi ragazzi” della Magliana, delle loro ambizioni megalomani e minimali, delle loro inaspettate nobiltà d’animo condite da un cinico pragmatismo, è quanto di meglio il film offre, assecondato da una buona regia, da una ricostruzione d’ambiente minimalista, ma suggestiva (pochi soldi, sembrerebbe di capire, che hanno costretto a fare di necessità virtù) e da qualche interprete in stato di grazia (Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria su tutti, circondati da tanti ottimi caratteristi tra i quali spicca un formidabile Antonello Fassari, mentre Accorsi rifà per l’ennesima volta il suo solito “personaggio” isterico e monocorde). Ah, quasi dimenticavo: Jasmine Trinca è talmente bella che può persino permettersi di non saper recitare.