La Storia è ciclica (fino al punto di poter enunciare che chi non impara dagli errori della Storia è condannato a ripeterli). Il mercato è ciclico. I movimenti di massa – in senso geografico, come in senso politico – seguono fasi cicliche. Non è dunque una sorpresa che anche la musica ripeta se stessa, a intervalli regolari: c’è chi riprende gli anni ’60 (come i The Soundtrack Of Our Lives, che lo fanno con una freschezza sorprendente); chi scopiazza gli anni ’70 (The Darkness, discepoli del rock elettrico stile AC/DC). Annunciato dal ritorno in grande stile di alcuni tra gli alfieri di allora (Duran Duran, Depeche Mode, Echo & The Bunnymen), è arrivato il turno degli anni ’80.
Parlare di quel decennio senza sentirsi di nuovo avvolti in quella cappa soffocante di grigiore, d’inesorabile immobilità apparente (tali e tanti umori sotterranei correvano, invece, da sfociare nel crollo del muro di Berlino), di minaccia latente, è inevitabile: sono gli anni in cui mancavano due minuti a mezzanotte. Due minuti alla catastrofe nucleare. Due minuti alla crisi economica (in Italia, s’agitava lo spettro del congelamento dei titoli di Stato). E la musica? Il punk ha il fiato corto, il rock ha smarrito la bussola, l’elettronica condisce di rumori carini indigesti pastoni pop. E’ difficile, anche a distanza di tempo, affermare che il panorama non fosse sconfortante – e, invece, il panorama offriva squarci di luce laceranti: R.E.M., Springsteen, U2, My Bloody Valentine, Green On Red, The Smiths, Dream Syndicate, solo per ricordare qualche nome.
“Newest Sensation” del brit-rock, gli Editors (Tom Smith, voce e chitarra; Chris Urbanowicz, chitarra; Russel Leetch, basso e Ed Lay batteria, tutti provenienti dall’Università di Stafford) si formano nel 2003, uniti dall’interesse per un sound debitore, nelle loro dichiarazioni, ai R.E.M., ai Doves ed agli Elbow ma che assomiglia a un mix tra Echo & The Bunnymen e Joy Division. Il rodaggio nei club e un buon demo suscitano l’interesse del mondo discografico; a metterli sotto contratto è la Kitchenware, già scuderia dei Prefab Sprout. Dopo un paio di singoli (“Bullets” e “Munich”), editano – è il caso di dirlo – il loro esordio full-lenght lo scorso luglio.
“The Back Room” è un’intrigante collezione di quel sound introverso, ora sostenibilmente cupo, ora gioioso senza convinzione: dalle atmosfere rarefatte di “Porcupine” degli Echo, alle raggelate cadenze di Ian Curtis, passando per qualche riff di chitarra in stile U2/“Boy”, gli Editors reggono bene il gioco senza tuttavia rivelare appieno le proprie ambizioni: riciclo o partenza a nuovo? Il buon livello tecnico e l’affiatamento del quartetto non bastano per riaprire quel file e infondergli nuova linfa, anche se la stampa inglese ha già speso altisonanti elogi per la band. La quale, il 10 novembre, salirà sul palcoscenico del Rainbow a Milano (unica data italiana, anche questa una tradizione): un’occasione per valutare sul campo le qualità sonore e lo spessore di questa (ri)proposta. Reagan e Thatcher non possono tornare e l’orologio arrugginisce sulle 11:58. Nel frattempo, però, i neo-con hanno preso il posto degli old-con, e le Malvinas hanno imposto la chimera della guerra-lampo. Che sia solo la musica, a tornare. Per favore.