Chi scrive tedia da mesi e da anni i lettori di varie riviste e giornali con un semplice e ormai quasi banale dato di fatto: le migliori pratiche del riformismo europeo sono soprattutto scandinave e hanno la loro principale radice nell’eredità storica e scientifica delle socialdemocrazie classiche. Questo apprezzamento del riformismo scandinavo è stato formulato anche da Anthony Giddens il 22 ottobre scorso, dinanzi alla platea di studiosi, politici e intellettuali raccolta dalla fondazione di D’Alema e Amato, Italianieuropei. Ne deriva che la competizione nella globalizzazione, nella società della conoscenza, nella nuova distribuzione del lavoro internazionale non implica affatto lo smantellamento del welfare radicato. Anzi, delle due l’una: o si dispone del Dollaro e di una capacità di risucchiare manodopera, capitali e cervelli dal mondo, oppure questi cervelli e questi capitali (soprattutto capitali umani) vanno prodotti in loco. E in loco si produce disponibilità a imparare e a produrre solo incentivando due redditi per famiglia, solo finanziando formazione e istruzione aperta a tutti i giovani e i disoccupati, solo con servizi alla cura e alla salute che permettano alle famiglie (tradizionali, di fatto, eterosessuali, lesbiche o gay) di essere operose col minimo dei rischi. Questo in Europa è possibile solo con il massimo dell’inclusione.
Piero Fassino ha sostenuto che il vento è cambiato, che la sinistra deve affermare che il welfare ampio e radicato dobbiamo potercelo permettere, e che quindi va ormai detto apertamente che una certa pressione fiscale non è qualcosa di cui vergognarsi. Succosa la risposta di Giddens: è ora di finirla di ritrarre la società britannica come il luogo della competitività neoliberale, in Uk c’è un welfare ampio e radicato. Chi scrive ha pensato che non c’era da dubitarne (un disoccupato, qualsiasi disoccupato, riceve in quell’isola come minimo da 61 a 77 pounds la settimana a seconda dell’età), ma ascoltare quell’affermazione incoraggia anche a formulare qualche ipotesi. La principale tra di esse è che evidentemente è finita l’epoca in cui Blair sottolineava gli aspetti liberali del proprio operato anziché quelli socialdemocratici. Che sono sempre esistiti, ma che sono stati da più parti artatamente misconosciuti. Il fatto è che il New Labour appartiene a un’epoca determinata da posizioni ideologiche particolarmente arcigne. Si dice che i britannici siano poco ideologici: è vero in termini storici assoluti, ma non in quelli comparativi relativi all’ultimo trentennio. Il pansindacalismo degli anni Settanta e l’infantile radicalismo dei primi anni Ottanta hanno caratterizzato e diretto il Labour in modo sconosciuto a qualunque socialdemocrazia. E’ finita così tra molti spasmi la formula della primazia delle trade unions che, del resto, ottant’anni prima avevano fondato il partito (in Svezia, per dire, fu invece il partito a promuovere la centrale sindacale LO).
Questo ha lasciato alla Thatcher ampio spazio per sembrare ragionevole pur propugnando (parliamo di messaggi più ancora che di politiche) un’ideologia liberista pura e dura. Del resto con l’uninominale secco tripolare (ci sono anche i liberaldemocratici a prendere un 10-20 per cento di voti) basta meno del 40 per cento per stravincere. Sul continente a nessuna destra è stata consentita così poca flessibilità: ancora oggi la Merkel, partita propugnando la flat tax, è umiliata nella Grosse Koalition.
Così alla fine del ciclo conservatore Blair ha trovato campo libero in due sensi: i sindacati e il radicalismo indeboliti e ancora screditati, e il mainstream ideologico britannico inutilizzato da vent’anni (quello inseguito da buonisti e nuovisti anche da noi, sì: quello vaghissimo “dell’armonizzare efficienza ed etica sociale”). Chiaro allora che Blair non si sia lasciato sfuggire l’occasione di vincere alla grande, e che il suo messaggio sia stato (semplificando) da un lato ancora liberista, dall’altro più genericamente “etico” che davvero socialdemocratico. Tra l’altro, non si dimentichi che mai il Labour aveva vinto per due legislature, e che così Blair vedeva l’occasione di annichilire i tories in un canto, di annettersi il centro e di “fare la storia”. Insomma: la terza via confermava il progetto di un welfare “residuale”, concepito intorno al mercato come dovere e decenza morale, con echi, magari, nell’umanitarismo liberale di Gladstone. Un patrimonio più congeniale alla cultura anglosassone illuminata, mentre i socialdemocratici pensano il welfare come risorsa competitiva, nell’ambito di un’idea alternativa della competitività. Con i nordici ad applicare l’idea (meno etica e comunitaria, più economicista: qualcuno giustamente la chiama statist individualism) con particolare coerenza e successo.
E’ presto per trarre delle conclusioni, ma la grande opportunità della convergenza annunciata da Giddens sarebbe quella di una sinistra europea unita a elaborare soluzioni nazionali offensive, in cui l’Unione e gli Stati membri collaborino a modernizzare, rinforzandolo, il welfare europeo. Specialmente quello relativo al mercato del lavoro. In questa convergenza socialdemocratica salta certo agli occhi che l’Italia si avvia di nuovo verso un’ipotesi di partito democratico. E’ inutile ruminare sconsolati la maledizione dell’eterna anomalia italiana. Meglio cogliere appieno l’occasione insita nel momento: quella cioè di una forza politica plasmata sul nascere da una nuova epoca della sinistra europea.