Napoli, seminario di formazione politica dei Ds. Il mio intervento, da tecnico, è sulla comunicazione in vista della campagna elettorale. Inizio con la metafora dello stadio vuoto di Philip Gould, non nuova a chi segue i ragionamenti sulla comunicazione politica che da anni accompagnano l’elaborazione progettuale del New Labour. La mia seconda slide – perché, lo sappiamo, fare vedere è più efficace che dire – mostra un’immagine di calciatori che giocano in quello stadio che per Gould è ormai senza pubblico.
Una metafora, quella del calcio, usata non tanto per dare risalto ai giocatori – nel caso protagonisti negativi di un meccanismo autoreferenziale – quanto alla sparizione del pubblico. Insomma nulla di pericoloso, pensavo. Appena compare l’immagine calcistica, però, una garbata ed elegante signora in seconda fila interrompe il mio intervento per criticare l’uso di un’immagine troppo maschile. Non precisa, la signora, cosa avrebbe voluto al posto dei miei calciatori – non avrebbe forse lamentato l’uso strumentale e oggettificato della donna se avessi messo al posto dei calciatori le scosciatissime giocatrici della nostra nazionale di pallavolo? – ma, tant’è, la critica femminista è partita. Incitato dagli sguardi della platea – affamata visto l’avvicinarsi del pranzo e poco interessata, nella sua componente maschile come in quella femminile, alle solite note quisquilie (neo)(post)(vetero)(tardo)femministe – riprendo e porto a termine l’intervento (non avevo altre immagini pericolose).
A fine seminario, però, la gentile signora riprende la sua personale polemica, accusandomi di una frase – “i Ds devono comunicare con tutti gli uomini che comporranno la squadra di governo” – letta in una delle dispense distribuite, ma che, ahimè, non ho scritto né pronunciato. Ma cosa importa, in quanto uomo sono colpevole di anti-femminismo e devo rispondere di frasi dette da chiunque altro – il presunto sillogismo è in questo caso accentuato dal fatto che l’autore della frase incriminata si occupi, come me, di comunicazione politica.
Si va a pranzo e la discussione continua, proprio a partire dalla comunicazione, accusata di tentata neutralità, quando invece, dice la signora, necessiterebbe di sessualità nei propri strumenti, mezzi, linguaggi, parole. Cosa voglia dire che i mezzi di comunicazione debbano essere sessuati non so. Ma quello che conta è l’inverosimile – inverosimile se rapportata al contesto attuale e tolta da luoghi e tempi di origine post-sessantottina – capacità di alcune donne dichiarate di sinistra di restare ancorate a logiche di steccato, di ragionare sul tema donneepolitica in termini inadeguati alle forme frammentate e complesse dell’abitare presente. Avrei voluto fare qualche domanda, ma l’ardore polemico non lasciava nella mia occasionale interlocutrice spazi di ascolto (ma ovviamente la colpa era mia, essendo uomo e avendo usato una metafora calcistica – cosa potevo pretendere?). Quindi ecco le mie domande, che, al di là della forma retorica, chiedono risposta a chi ne sappia trovare una convincente e non banalmente ripetitiva di cliché del passato.
Si potrà prima o poi uscire da una contrapposizione maschi-femmine che ormai neanche più all’asilo? Si potrà immaginare che non tutto si risolve solo con attenzioni lessicali, che non basta dire ministra piuttosto che ministro per risolvere il problema delle donne in politica? Che si può essere indifferenti alle quote rosa – io lo sono – convinti che siano una risposta che non risolve il problema della rappresentanza delle donne? Si può essere, quindi, contrari all’uso delle quote rosa come prioritaria soluzione per rafforzare la presenza femminile in politica? E si può dire che occorre parlare di sensibilità femminile e non di femmine? Che il femminismo per come la società italiana l’ha conosciuto ha esaurito la sua necessità storica? Che il problema di una più corretta rappresentanza nelle cariche elettive riguarda diversi segmenti sociali e non solo le donne? Che finché le donne – e i giovani e qualsiasi altra delle categorie che ama autorecintarsi – sprecheranno energie per chiedere spazi piuttosto che dimostrare di meritarli – con competenze, sensibilità e voti – non otterranno nulla?
E poi, si può pensare che il problema non è tanto contare quante donne e quanti uomini, ma avere persone competenti, intelligenti, capaci, al di là delle naturalistiche differenze di genere, di interpretare sensibilità maschili e femminili senza gli steccati che piacciono a chi non riesce a uscire dal proprio corpo per pensare con la propria testa? Insomma è così assurdo dire che la rappresentanza di genere, oggi, nel 2005, non è una questione di diritto naturale, ma di merito personale, culturale e politico? E che vogliamo più donne in politica solo se migliorano la politica? Perché, se la lasciano così com’è, che siano maschi o femmine non ci interessa. E possiamo pensare che il sessismo – quello maschile o quello femminile – fa male alla politica? Insomma, se io, per convinzione e piacere della provocazione, dico, tra un fagiolino al sugo e una fetta di babà, che il mio modo di interpretare il problema della presenza femminile in politica è più efficace di quanto non lo sia il loro (di signora e compagne), non mi si può rispondere che sono uomo e non posso parlare di questioni femminili (confondendo gli aggettivi con i sostantivi – perché il mondo dimostra che si può essere femminili anche senza essere femmine e viceversa). Altrimenti, care femministe, riunitevi in circoli segreti, fate le vostre sette – magari almeno riusciste a fare lobby – e replicate il malfunzionamento della politica maschilista. Oppure fate listoni trasversali di sole donne. Quanti voti prenderete?
Resta, infatti, inevasa la questione centrale: che non è che sesso hanno i giocatori rimasti nello stadio vuoto che tutto ha generato, ma chi sono e cosa vogliono quelli che non vanno più a vedere le partite. Che siano uomini o donne, adulti o giovani, gay o etero, cattolici o atei, cercano persone capaci – uomini o donne, adulti o giovani, gay o etero, cattolici o atei – in grado di rappresentare, interpretare e determinare le direzioni di sviluppo della società. Che non sono nei corpi, nelle barbe o nelle tette, ma nel saper fare politica. Senza sessismi di nessun tipo, colore e sesso.