Forza Italia, il partito-azienda, può essere considerato a tutti gli effetti come una società quotata sul mercato della politica. Una società in crisi, nonostante i ripetuti tentativi di ricapitalizzazione generosamente sottoscritti dal suo presidente, amministratore delegato e unico proprietario (anche con qualche scoperto tentativo di aggiotaggio e non solo grazie ai mezzi di comunicazione di cui dispone direttamente). Una società che vede oggi le sue quotazioni crollare ben oltre il prezzo di carico, almeno per quanto riguarda i suoi soci, che sono comprensibilmente nervosi. Una società che contiene però partecipazioni strategiche: Forza Italia è comunque destinata a restare il primo partito del centrodestra, depositario della leadership del proprio schieramento, ricco di voti, strutture e relazioni che la pesante sconfitta del 2006 potrà certo ridimensionare, ma non cancellare.
Se questo però è oggi lo stato di Forza Italia, se davvero il partito-azienda fosse una società quotata non potrebbe esserci dubbio su quale sarebbe l’unanime giudizio degli analisti: Forza Italia è una preda. E le fortissime oscillazioni subite dal titolo in questi mesi confermerebbero la tesi. Le note divisioni nel management e la convinzione diffusa circa la volontà di Berlusconi di abbandonarne la direzione dopo la sconfitta del 2006 completerebbero efficacemente il quadro. Tutto porterebbe a ritenere che qualcuno stesse seriamente pensando di scalare il partito del presidente del Consiglio. Tutto porterebbe a dare per scontato che le grandi banche d’affari della politica avessero già preso i propri contatti, avviato i primi colloqui, analizzato i bilanci e individuato i possibili compratori.
A chi corrisponda il ruolo che nel mondo della finanza è svolto dalle grandi banche internazionali non è qui il caso di specificare. Si rischierebbe di offrire una visione cupa e complottista di una situazione in cui invece, per dire la verità, non c’è niente di nuovo. Più interessante è semmai osservare le mosse di quei manager che da tempo hanno inviato segnali al mercato, mostrando un crescente desiderio di autonomia, che al momento opportuno potrebbero rivelarsi i cavalli di Troia degli attaccanti. Non meno interessante, però, sarebbe studiare le mosse del Cavaliere, che come ogni amministratore di questo mondo, dinanzi al pericolo di scalate ostili ha solo un paio di frecce al proprio arco: individuare un cavaliere bianco, una fusione amichevole che permetta di mettere al sicuro il patrimonio, oppure procedere egli stesso al break-up, ridurre Forza Italia a uno spezzatino, abbandonare le partecipazioni non strategiche per concentrarsi sul core business. L’ipotesi di garantirsi contro possibili scalate attraverso patti parasociali, scatole cinesi e pillole avvelenate non risulta infatti praticabile, stante la drammatica carenza di soci disponibili a legarsi mani e piedi a una proprietà che ormai tutti considerano – e non a torto – come la principale responsabile del pessimo andamento del titolo. E poi è noto che Berlusconi per primo non ha alcuna intenzione di farsi altri cinque anni di traversata nel deserto dell’opposizione. Ma questo non significa che prima di tornare ai suoi affari il Cavaliere non sarà ben attento a fare in modo che in parlamento rimanga una forza politica consistente e di provata fede a guardargli le spalle.
In attesa di vedere le mosse dell’inafferrabile Cavaliere, si può dunque provare a buttare un occhio su quei dirigenti del partito o suoi alleati che da tempo mostrano più alte ambizioni e più chiari disegni. A cominciare dal ministro degli Interni Beppe Pisanu. A lui fa capo infatti quella vasta rete di ex democristiani che dalla Lombardia al Veneto, ma anche in Sicilia, hanno portato in dote a Forza Italia non solo un patrimonio di voti e di relazioni, ma anche di competenze e di quadri intermedi senza i quali nessun partito – fosse anche, come Forza Italia non è, realmente fatto di plastica – non potrebbe mai reggersi. A spianargli la strada è arrivato poi anche lo scandalo Oil for food che ha definitivamente azzoppato Formigoni, unico temibile concorrente in questo ricco bacino. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di teoria della parentesi berlusconiana, una piccola glaciazione disciolta la quale tornino a galla (e a comandare) quelle strutture e quegli uomini che dopo gli scandali degli anni Novanta avevano dovuto nascondersi sotto la coperta del Cavaliere. Ma dovranno fare i conti con quella che è la vera anima e la spina dorsale del movimento berlusconiano prima di ogni altro innesto, che fa capo a Marcello dell’Utri e corrisponde alla struttura messa in piedi da una costola di Publitalia, tornata all’onore delle cronache con il lancio di “Motore azzurro”, avanguardia di “militanti a progetto” pronta a essere mobilitata per la campagna elettorale. Questi sono i due pilastri su cui si regge il partito: Publitalia e Democrazia cristiana. Finora hanno convissuto, ma come si comporteranno in futuro è impossibile dire. Quanto alle manovre della componente teo-con animata dal Presidente del Senato, nonostante l’indubbia abilità nella conquista di spazi crescenti nei mezzi di comunicazione e una certa capacità di dettare l’agenda del dibattito pubblico, non sembra disporre delle divisioni – e a dire il vero nemmeno dei generali – necessari a sostenere alcuna parte di rilievo nella battaglia che si annuncia. In caso di opa, c’è da scommettere che i soci teo-con saranno i primi a vendere il loro pacchetto. Quanto alla componente liberale-radicale, non sembrano disporre nemmeno delle azioni sufficienti per incassare la minima plusvalenza.
Diverso è il caso del ministro Tremonti. Quali che siano le sue ragioni nel protestare contro le scelte di Siniscalco – si direbbe che il creativo tributarista non possa assentarsi un minuto dal ministero che al suo ritorno non trovi un buco di cui lamentarsi – la sconfitta del governo è innanzi tutto sua. E’ sull’economia che Berlusconi ha perso la scommessa e Tremonti non potrà non pagare il conto. Resta tuttavia la sua indubbia capacità politica, lui è l’uomo dell’alleanza strategica con la Lega e di quel curioso impasto di retorica no global, protezionismo e liberismo che in un pezzo dell’Italia settentrionale riesce ancora a toccare corde profonde. Se dunque sarà la corrente democristiana di Beppe Pisanu a prevalere, in uno scenario che veda Forza Italia sciogliere definitivamente il nodo dell’identità irrisolta verso un modello da Cdu tedesca – l’antico sogno del professor Buttiglione – Giulio Tremonti potrebbe facilmente vestire i panni del leader bavarese Edmund Stoiber, associandosi con la sua Csu leghista al troncone democristiano e assicurandone definitivamente l’egemonia. Quanto ai Fini, Follini e Casini, difficilmente potranno fare qualcosa per impedire un simile scenario, a meno che non sia lo stesso Berlusconi a investirli del ruolo di suoi cavalieri bianchi. Certo è che chiunque sarà a prevalere, dovrà prima parlare a lungo con Marcello dell’Utri e i suoi uomini, garantendo tutto quello che ci sarà da garantire. Chi davvero credesse che il problema del semi-monopolio televisivo sia destinato a risolversi con l’uscita di scena del Cavaliere avrà tutto il tempo per disilludersi.