Questa settimana, mentre nella sede di Italianieuropei a Roma le teste d’uovo dei Democratici americani incontreranno i leader del centrosinistra, Berlusconi incontrerà a Washington George W. Bush. Probabilmente è troppo presto per parlare dei futuri capi del governo da un lato e dei futuri leader dell’opposizione dall’altro, certo è che lo scandalo che ha coinvolto l’Amministrazione Usa non resterà senza conseguenze. La prima, Bush l’ha potuta constatare nelle parole dello stesso Berlusconi, che giusto sabato ha pensato bene di chiarire pubblicamente che lui l’aveva detto un milione di volte, all’amico George, che quella guerra in Iraq era una fesseria. E pure che a dirla tutta, l’idea che la democrazia sia esportabile con le armi non lo ha mai convinto. Se non la pensassimo allo stesso modo, ci verrebbe quasi voglia di inviare una lettera di solidarietà al presidente americano. Resta però la meravigliosa ironia della storia, in quel viaggio così a lungo programmato e pensato per ottenere aiuto in campagna elettorale, che si svolge proprio nel momento in cui potrebbe quasi essere Bush a dover chiedere una mano a Berlusconi.
Immaginate lo sconcerto del Cavaliere, quando si sentirà spiegare che il motivo di tanti guai per il presidente degli Stati Uniti starebbe nel fatto che suoi uomini di fiducia avrebbero mentito davanti al Congresso e nascosto documenti rilevanti per le indagini. Come minimo penserà di trovarsi di fronte a un dilettante. Gli passerà i numeri di telefono dei suoi onorevoli avvocati – Ghedini, Pecorella, Previti – e si preparerà a ripartire di corsa.
Lo scandalo americano ha in sé qualcosa di molto italiano. E non solo per il coinvolgimento del Sismi. L’indagine partita per accertare se esponenti dell’Amministrazione Bush avessero rivelato l’identità dell’agente segreto Valerie Plame come rappresaglia contro le critiche mosse alla Casa Bianca dal marito, l’ambasciatore Wilson, al momento sembra avere concluso che il fatto non è stato commesso. Nonostante questo il capo di gabinetto del vicepresidente Cheney è stato incriminato perché secondo l’accusa ha tentato di sviare le indagini. Ma il punto più delicato, in questa paradossale e complicatissima inchiesta sull’insabbiamento di un reato che a quanto pare nessuno ha commesso, sta nel coinvolgimento di Karl Rove, celebrato stratega delle vittorie repubblicane. Ma soprattutto, nonostante le accuse dell’ambasciatore Wilson sulla vicenda della compravendita di uranio dal Niger si siano dimostrate in gran parte false (e lo stesso coinvolgimento dei nostri servizi tutto da dimostrare), non si può non vedere il potentissimo effetto domino che una tale vicenda può avere sull’opinione pubblica, in America e di conseguenza in Italia. E per il semplice motivo che il punto di partenza di tutta questa storia è sempre e ancora uno: armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano. E sentirlo ripetere ogni giorno, mentre i soldati americani continuano a morire, certo non contribuisce a risollevare la popolarità del presidente dai colpi subiti durante l’emergenza causata dall’uragano Katrina. Se poi dovesse essere confermato che alti esponenti del governo abbiano mentito e tentato di sviare l’inchiesta, per Bush le cose potrebbero mettersi male sul serio. Aggiungete le notizie provenienti dall’Iran e dalla Siria, e ricordate le parole pronunciate da un autorevole esponente dell’ala neoconservatrice, Richard Perle, nel marzo del 2003: “Preferiresti discutere di terrorismo con il presidente siriano Bashar al-Assad prima o dopo la liberazione dell’Iraq?”. Dopo la liberazione dell’Iraq in Libano è morto l’ex presidente Hariri, capo della fazione antisiriana. E il nuovo presidente iraniano Ahmedinejad, che ha clamorosamente sconfitto il più moderato Rafsanjani, nel frattempo si è rimesso a trafficare con il nucleare e a parlare di cancellare Israele dalla faccia della terra. Non c’è da stupirsi se Berlusconi, in vista delle elezioni, comincia a dare qualche segno di inquietudine. Del resto, fino allo scoppio della guerra e per tutta la durata del conflitto, il presidente del Consiglio era stato attentissimo nel misurare i passi, senza partecipare direttamente alla guerra e limitandosi a concedere i diritti di sorvolo e le basi militari, dopo aver fatto di tutto – come ha ricordato sabato, perché è la verità – per impedire che si arrivasse all’invasione. Soltanto dopo, insieme a tutta la sua maggioranza, si convinse che la guerra-lampo immaginata da Rumsfeld si sarebbe risolta in un trionfo. E volle salire sul carro del vincitore. Avendo legato le sue sorti a quelle di Bush, così Berlusconi paga oggi lo stesso errore del presidente americano: incauti consiglieri.