Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che a un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito. Ora per molte operazioni che attengono all’interesse della comunità è necessario un certo meccanismo, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo onde mediante un’armonia artificiale il governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli. Qui ovviamente non è consentito ragionare, ma si deve obbedire. Ma in quanto nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica, e si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l’attività cui sono adibiti come membri parzialmente passivi. Così sarebbe assai pernicioso che un ufficiale, cui fu dato un ordine dal suo superiore, volesse in servizio pubblicamente ragionare sull’opportunità e utilità di questo ordine: egli deve obbedire. Ma è iniquo impedirgli in qualità di studioso di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle operazioni di guerra e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti; e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, quando devono essere da lui eseguite, può anzi venir punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a disubbidienze generali). Tuttavia costui non agisce contro il dovere del cittadino se come studioso manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull’ingiustizia di queste imposizioni.
(Immanuel Kant, Che cos’è l’illuminismo)
a cura di Massimo Adinolfi