Le grandi metropoli occidentali da decenni procedono alla progressiva espulsione di masse crescenti di persone, confinandole ai margini, per risvegliarsi oggi dinanzi ai roghi di Parigi e scoprirsene assediate. Queste nuove masse di diseredati, disorganizzate e deideologizzate – preda di un furore spontaneo infiammabile a ogni genere di predicazione perché sostanzialmente impolitico – agiscono secondo il più elementare principio di reazione identitaria. Al primo grave incidente con la polizia e alle irresponsabili dichiarazioni di guerra del ministro degli Interni francese, Nicolas Sarkozy, sono scese in strada e hanno cominciato ad appiccare il fuoco. Non contengono avanguardie consapevoli né cellule organizzate, non si riconoscono in alcun profeta e non avanzano rivendicazioni, non sono un movimento politico e non lottano per conquistare diritti o vederseli riconoscere. Queste masse hanno un solo nome: sottoproletariato. Questo pulviscolo impazzito in cui si aggrega disagio giovanile, esclusione sociale ed emarginazione razziale, composto in Francia da immigrati di seconda o terza generazione che – come si usa dire – sono nati francesi ma non lo sono diventati, sono dei déracinés, degli sradicati.
Il sottoproletariato non ha nazione. Quello che oggi accade a Parigi, non domani ma certamente dopodomani, potrebbe accadere qui. Non si tratta solo di immigrazione. In Italia a esplodere potrebbero essere le carceri, disumane e sovraffollate. O i reclusi delle nostre utopie urbanistiche, non di rado opera di architetti e giunte di sinistra, non sempre e non necessariamente abitate soltanto da immigrati. Nei nostri penitenziari si trovano soltanto tossico-dipendenti, sottoproletari e immigrati. Il resto sono eccezioni statisticamente irrilevanti. In Europa l’emarginazione sociale è divenuta emarginazione fisica. L’espulsione dal centro cittadino ha coinciso con l’espulsione dal cuore della polis: da decenni ormai borgate e banlieue sono diventate territorio dell’estrema destra. Già oggi rischiano di diventare terreno privilegiato della predicazione fondamentalista. Ma è ridicolo attribuire i moti di questi giorni alla pianificazione di qualche cellula di al Qaeda. E’ probabile che l’islamismo radicale non tardi a rivendicare la paternità della rivolta e a soffiare sul fuoco, se vedrà nel suo svilupparsi un’occasione di propaganda, ma è sciocco attribuirgli la paternità di una simile insurrezione spontanea. Le cellule del terrore agiscono nell’ombra, in piccoli commando mimetizzati nelle società occidentali, con azioni mirate frutto di una lunga e silenziosa preparazione, con una precisa strategia militare. La rivolta delle banlieue e la reazione dello stato renderanno più difficile il loro lavoro, non più facile.
I roghi di Parigi già cominciano a estendersi ad altre città della Francia. Difficile dire fin dove potrà arrivare il contagio e quando. Ma dinanzi a quelle fiamme risalta prima di tutto il vuoto di un dibattito politico, culturale e giornalistico che da troppo tempo ha smesso di confrontarsi con questi temi. Come in una sorta di reazione di rifiuto dopo la sbornia degli anni sessanta e settanta, problemi elementari quali la casa e il lavoro, l’integrazione e l’esclusione sociale sono apparsi appannaggio esclusivo di formazioni radicali e minoritarie. Quasi fossero un relitto del passato in quella società perfetta degli intellettuali che negli anni novanta proclamavano la fine della storia. La prima smentita a questa tesi è arrivata dall’esterno, l’11 settembre 2001. La seconda, dall’interno, con le rivolte di Parigi. A entrambe queste smentite, la destra ha risposto secondo la stessa logica: rifiutando di vedere il problema e considerando tali reazioni come semplici azioni criminali cui rispondere riportando l’ordine con la forza e rimettendo le cose a posto. Altri, con parole irresponsabili e criminali, ne hanno invece esaltato la valenza distruttrice e rivoluzionaria, o non tarderanno a farlo. Non mancherà un Toni Negri che esalti la distruzione creatrice delle moltitudini parigine, come purtroppo non sono mancati in questi anni i deliranti proclami di sedicenti formazioni antimperialiste a sostegno della resistenza irachena. Ma se la sinistra riformista non affronterà il tema nell’unico modo possibile, con la forza quando indispensabile – come in Afghanistan – e con la politica quando è necessario – come si sarebbe dovuto fare e come è sempre più urgente fare in Iraq – il corto circuito tra la rivolta delle periferie del mondo e la rivolta delle periferie metropolitane potrebbe schiacciarla definitivamente tra l’afasia pseudoriformista e il radicalismo scioccamente protestatario. La saldatura tra le banlieue occidentali e le cosiddette periferie dell’impero in un’unica grande periferia della globalizzazione rischierebbe di soffocare la sinistra. Le grandi capitali della politica occidentale devono porsi il tema di come reinserire gli esclusi e gli sradicati in un circuito di rappresentanza. Questo è il problema di fondo, perché gli immigrati e i sottoproletari che stanno dando fuoco alla Francia oggi non hanno rappresentanti, ma presto o tardi li troveranno.