Le dichiarazioni di D’Alema su Mussolini contenute nel libro di Bruno Vespa hanno innescato una discussione non priva di assurdità. A sollevare scandalo è stato il passaggio in cui il presidente ds ha definito “inaccettabile” l’uccisione del dittatore. In verità, letto per intero il passo in questione non sembra oltrepassare i confini di un’osservazione di buon senso: “La sua uccisione fa parte di quegli episodi che possono accadere nella ferocia della guerra civile, ma che non possiamo considerare accettabili. Quello scontro feroce conobbe atti di barbarie da una parte e dall’altra, e quindi anche l’esecuzione della Petacci va collocata in quel clima. Oggi, a due persone che ne parlano in poltrona, appare incomprensibile”. L’ultima affermazione spiega il senso in cui va intesa la precedente: oggi, a due persone che ne parlano in poltrona, appare incomprensibile quello che ieri, nel pieno di una guerra civile e di una guerra mondiale, incomprensibile non era a nessuno. In questa banale considerazione non c’è nulla che giustifichi le accuse di strumentalizzazione, tanto meno se lo scopo recondito di tali affermazioni dovrebbe essere ottenere il gradimento degli avversari. Questa polemica sembra obbedire al riflesso condizionato di una pubblicistica condannata a ripetere sempre gli stessi schemi, che non ha capito come stavolta, invece, D’Alema abbia sposato una linea niente affatto scontata (e dal mio punto di vista, nemmeno condivisibile).
“Al di là dell’accertamento delle responsabilità individuali – ha detto infatti il presidente della Quercia – un processo al Duce come quello di Norimberga avrebbe consentito anche di ricostruire un pezzo di storia italiana”. Quella qui proposta è una posizione radicale: processare un dittatore, dopo vent’anni di regime, significa processare un’intera classe dirigente. Per sfuggire alle insostenibili conseguenze di una simile affermazione, D’Alema premette: “Al di là dell’accertamento delle responsabilità individuali”. Intendendo che non sarebbe tale accertamento l’importante, ma appunto la possibilità “di ricostruire un pezzo di storia italiana”.
L’idea di una Norimberga italiana in cui riscrivere la storia del paese – “la vera storia d’Italia”, ricordate? – non è certo nuova. Non è nuova ed è anzi una pulsione ricorrente, che attraversa tutte le fasi di crisi della storia repubblicana, a partire dal processo alla Dc invocato da Pasolini. E’ una posizione, però, che appare del tutto estranea a quella tradizione politica e culturale che ha sempre visto nell’amnistia di Togliatti il punto più alto di una linea di riconciliazione nazionale non a caso assai meno apprezzata dagli azionisti e dagli ambienti democratico-radicali. Un esempio, quello togliattiano, citato spesso anche negli ultimi anni, dinanzi alle scelte compiute in Iraq dagli americani: la messa al bando del Baath e il licenziamento di tutti gli elementi a esso collegati, con il risultato di ingrossare le file degli insorti e lasciare esercito, polizia e apparati dello stato privi di uomini e competenze tanto più necessari in quel momento drammatico. Cosa avrebbe significato una scelta simile per l’Italia di allora?
Eppure si potrebbe prendere lo stesso esempio iracheno dal verso opposto. Sottolineando, tanto nelle parole di D’Alema quanto nell’approccio della sinistra alle recenti crisi internazionali, un’enfasi crescente verso gli aspetti legalitari, un’espansione della sfera giuridica a danno della politica. Quali che siano le opinioni sul fatto specifico, è evidente che l’uccisione di un dittatore non può essere equiparata a un semplice caso di omicidio. In piena dittatura – o nel pieno della battaglia per rovesciare quella dittatura, o anche in una fase di transizione e di legalità incerta come quella badogliana – la stessa scelta di condurre il dittatore a processo, e di come condurcelo e con quale accusa, dinanzi a quale tribunale e in nome di quale potere, va da sé che è una scelta politica. Ma se è una scelta politica e non giuridica, allora è con le categorie della politica che va valutata. Guardando all’Italia dal ‘45 a oggi, si direbbe che la storia abbia dato ragione a Togliatti. Il sogno di una Norimberga italiana che permettesse di fare davvero i conti con il passato è il simbolo di una visione pessimistica del paese, tipica di quegli ambienti azionisti e radicali che infatti, con piena coerenza, sempre si opposero alla politica togliattiana. Una visione che oggi ritroviamo non a caso in tanti fieri oppositori del presidente ds, dai sostenitori dell’insurrezione permanente ai fautori del grande processo purificatore in cui riscrivere la “vera storia d’Italia”.