Giovedì 10 novembre un terremoto politico ha colpito Tel Aviv. Contrariamente alle aspettative di tutti le primarie del partito laburista israeliano hanno designato non l’ottantaduenne presidente protempore (e vicepremier nel governo di coalizione con il Likud) Shimon Peres, bensì Amir Peretz. Dei 65mila membri del partito che hanno preso parte alle primarie, infatti, il 42,4 per cento ha votato per Peretz, il 39,9 per Peres e il 16,8 per Beniamin Ben-Eliezer. La sorpresa è stata generale. Del resto Amir Peretz ha compiuto una manovra che si può accostare al congresso del Psi tenutosi all’Hotel Midas: anche allora un dirigente sconosciuto al grande pubblico, Bettino Craxi, spodestò con brutalità ed efficacia un venerabile capo del partito come De Martino. Amir Peretz, nato in Marocco cinquantaquattro anni fa e arrivato con la famiglia in Israele a quattro anni, è una figura nota in Israele, ma del tutto sconosciuta sulla scena mondiale, scena che un leader laburista israeliano finora doveva necessariamente saper calcare, perché il suo compito era quello di occuparsi del conflitto arabo-israeliano e di quello con i palestinesi. Amir Peretz, invece, è totalmente digiuno di diplomazia internazionale e non parla una parola di inglese. In compenso è un amatissimo leader naturale, dotato di un’eloquenza eccezionale – che ricorda quella di Di Vittorio – dal 1995 carismatico presidente dell’Histadrut, il sindacato israeliano. Da che cosa nasce questo cambiamento? La vera discontinuità è avvenuta con il ritiro da Gaza di tutte le colonie. Un ritiro dirompente che ha rimescolato la politica israeliana: perché ha minato la base stessa dell’ideologia della destra, fondata sull’intangibilità della terra biblica d’Israele. Finora un mito intoccabile, difficile da trattare anche per i laburisti, che lo traducevano in una più laica ma sempre mitologica concezione della sicurezza. Sharon, con una vera mossa del cavallo, ha spiazzato tutti. La Politica ha ripreso il centro della vita dello stato, il Mito è tornato in secondo piano. Oggi in Israele ci si vuole dividere su pensioni e crisi economica, e non più sulla domanda se i palestinesi avranno o meno uno stato: tutti sanno che bisognerà scendere a patti e che uno stato palestinese ci sarà, se Israele non vuole perire. Sharon ha capito che su questo esiste oramai un consenso nazionale, creato dal sacrificio di Rabin. A non averlo capito erano i laburisti, ancora frastornati dal suo assassinio e da troppe sconfitte. E’ un cambiamento epocale: “è l’economia, bellezza!”. Per Peretz la pace con i palestinesi è in cima all’agenda proprio come mezzo per tornare a essere un paese normale, tornando finalmente a discutere di altre cose, a partire dalla condizione degli esclusi: Israele nell’ultimo decennio è diventata la società occidentale più polarizzata e con il più alto tasso di povertà tra gli anziani. Lo slogan del vincitore delle primarie è stato: “L’economia al servizio del popolo, il popolo al servizio della pace, la pace al servizio dell’economia”. Non è un caso che a sostenere con passione la sua campagna ci fossero Benny Gaon (industriale) e Ofer Kornlfed (multimiliardario dell’high tech). La vittoria di Peretz nasce dunque da quella di Sharon – oramai il vero prosecutore dell’opera di Rabin – che ha decretato il ritorno dell’autonomia della politica. In questo senso Peretz è biograficamente una minaccia per l’egemonia dei militari, tanto che fu crudelmente ridicolizzato in una famosa assemblea di partito dal deputato laburista Danny Yatom – ex capo del Mossad (sicurezza estera), mentre specularmente nel comitato elettorale di Peretz ci sono due ex capi dello Shin Bet (sicurezza interna) – per non essere stato più di un semplice capitano. Del resto questa egemonia è minacciata da cambiamenti anche internazionali: è trapelato che il Mossad dopo l’11 settembre non è più l’alleato chiave della Cia nella regione, perché rimpiazzato dal Direttorato dell’Intelligence Generale, il servizio segreto giordano. Insomma, potrebbe chiudersi la fase di supplenza alla politica da parte dell’aristocrazia militare askenazita, che in Israele ha quel ruolo di riserva della Repubblica che in Italia era della Banca d’Italia. Peretz ha dichiarato che è il “demone etnico” il pericolo più grande per Israele. “Noi abbracciamo i nostri fratelli nuovi immigrati, noi abbracciamo i nostri fratelli arabi, noi abbracciamo i nostri fratelli drusi” ha arringato subito dopo la sua elezione. Per poi segnalare come Menachem Begin nel 1977 riuscì a cacciare i laburisti dal potere dopo ventinove anni perché si fece promotore non di Eretz Israel Ha-Shalema (la Grande Israele) bensì di Eretz Israele Ha-Shniya (la Seconda Israele), riferendosi all’irruzione epocale sulla scena politica degli ebrei sefarditi svantaggiati cui diede voce il Likud. Da allora i laburisti non si ripresero più, se non con Rabin. Oggi ci riprova Peretz, dicendo che è proprio su quel terreno che si può battere la destra. Ciò ha messo in moto processi politici: il capo del Meretz, Yossi Sarid, ha dichiarato che su questa piattaforma si può ipotizzare una riunificazione tra i due partiti; il leader del centrista e laico Shinui, Yosef Lapid, ha comparato la sua elezione con il terremoto politico del 1977. Continua dunque il big bang della politica israeliana. A perdere, il 10 novembre, sono i vecchi assetti: Peres, il liberista Netanyahu – competitore interno di Sharon nel Likud – e il leader del partito ortodosso-sefardita Shas. Il problema è che Peretz di fronte ha proprio Sharon, che nell’arena politica si è ben piantato al centro: sarà difficile farlo sloggiare (al 9 novembre 2005 sono morti in Iraq 2059 soldati Usa).