Ognuno corre e corre per vincere», ha detto Marco Follini nell’intervista a Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera in cui rilancia la Grande coalizione dopo le elezioni, e sembra di sentire un sospiro di vago disgusto dietro le lenti. Già, che orrore partecipare alle elezioni per vincere. E che schifo giocare nel campionato di serie A per arrivare primi, non si potrebbe pensare a una classifica bloccata? Che brutta cosa il conflitto, la competizione, l’alternanza degli schieramenti, la democrazia.
Naturalmente Follini è un sincero democratico e non nutre probabilmente nessuna simpatia per gli ottimati che di tanto in tanto si affacciano sulla scena per ribadire che a loro della volontà popolare non importa nulla, anzi, la considerano dannosa. Follini viene da una scuola politica che ha fatto della ricerca e della conquista del consenso, se non l’unica, la principale virtù. Proprio per questo, però, stupisce e fa riflettere la sua uscita pro-Grande coalizione, già avanzata da Giulio Tremonti. E ancor più i precedenti nobili invocati dall’ex leader dell’Udc per giustificare la necessità di un nuovo abbraccio tra schieramenti: il connubio di Cavour, il Cln e la Costituente, la solidarietà nazionale degli anni Settanta.
Lasciamo perdere Risorgimento e Resistenza, fasi storiche eccezionali e che, con tutta la fantasia politica del mondo, non sono più ripetibili. Più interessante è il riferimento agli anni Settanta. Al governo con in maggioranza il Pci Aldo Moro aveva portato tutta la Dc. Scontando però ambiguità e contraddizioni che da subito avevano gravemente indebolito quell’esperimento. Per una parte della Dc, quella maggioritaria, l’alleanza con Berlinguer era infatti dettata dallo stato di necessità, il terrore di perdere il potere. C’era una Dc dorotea che dopo le elezioni amministrative del ‘75 e la vittoria del Pci aveva sentito nella carne e nel sangue di centinaia di assessorati persi cosa significava l’alternanza di governo. Si sarebbero alleati con chiunque, pur di far passare ‘a nuttata. E c’era un’altra parte della Dc che vedeva nell’incontro con i comunisti l’occasione storica di aprire le porte di governo a un terzo del paese che ne era sempre rimasto escluso. Sdoganare il Pci, si direbbe oggi. Allargare le basi della democrazia, si diceva allora con linguaggio moroteo. Abbattere il Muro in Italia, dieci anni prima.
Nonostante questo obiettivo ambizioso, magari velleitario, o forse proprio per questo, si misero in moto resistenze di tutti i tipi e di tutti i colori politici. Dalle Brigate rosse alla P2, per capirci. La Grande coalizione Tremonti-Follini sembra guidata pochissimo dalla seconda ispirazione e moltissimo dalla prima. Non si propone di includere: vuole escludere. Più che una Grande coalizione ricrea piccole conventio ad excludendum. Escludere le estreme, la Lega da una parte e Rifondazione dall’altra. Facendo finta di ignorare che in Italia l’estremismo politico si è trovato spesso più rappresentato da Berlusconi e dal partito di maggioranza relativa Forza Italia, dai falchi sulla giustizia alla Previti e Pecorella, dalla politica economica dello stesso Tremonti. La Lega, tutto sommato, ha fatto il suo sporco lavoro di movimento populista: lotta nelle piazze e governo a Roma. Si potrebbe obiettare che lo scopo è invece proprio questo: escludere Berlusconi. Ma in nome di cosa? E come? Saltando le elezioni? Trattando il voto come una fastidiosa formalità da archiviare al più presto per poi tornare ai giochi veri di chi li sa confezionare? Una Grande coalizione che esclude da una parte e che si propone di eternare al potere l’attuale classe dirigente dall’altra. In base a un teorema indimostrabile a tre lati. Alcune forze, depositarie della virtù magica della moderazione, sono destinate a rimanere al governo per sempre, il Centro. Altre devono sempre restare fuori dal governo, le Estreme. Altre ancora devono decidere da che parte buttarsi: nel governo con tutti gli altri moderati o tenersi fuori. Nel primo caso, saranno ammessi alla cerchia dei buoni e legittimati come forza ragionevole e riformista (dagli altri, non in virtù del proprio programma). Benedetti da un ampio schieramento di forze: editoriali, economiche, ecclesiastiche, internazionali. Nel secondo, se preferiranno presentarsi di fronte agli elettori dichiarando la propria indisponibilità al pasticcio, finiranno nella sordida cerchia dei cattivi, nemici del bipolarismo mite, ciechi e sordi a ogni tentativo di incontro.
Un Grande Teorema Doroteo. L’opposto di quanto teorizzato da Moro negli anni della democrazia bloccata, quando chiedeva alla Dc di farsi opposizione da se stessa. Il Teorema Doroteo postula l’esatto opposto: restare al governo a tutti i costi, con qualsiasi formula e qualsiasi programma. La Grande Coalizione suona la sirena per i dorotei ovunque allocati: post-democristiani, tecnocratici, tremontiani, margheritici, riformisti. E’ già all’opera nei club riservati, nelle riunioni dell’Aspen e al settimo piano di viale Mazzini, dove il connubio Petruccioli-Meocci è cosa fatta. La Rai, ancora una volta, anticipa di qualche mese la politica italiana.
Ma un conto è la gestione di un’azienda, sia pure politicizzata come la Rai. Un conto sono i convegni, i seminari di studio, i laboratori di analisi. Un altro è teorizzare adesso, a bocce ferme e a elezioni ancora lontane, la necessità di mettere in mora il risultato elettorale perché, tanto, chiunque vinca nessuno sarà in grado di governare. Come se invece fosse da auspicare anche da noi il risultato della Germania, da due mesi senza governo e con partiti sconquassati e in balia di trattative senza fine “all’italiana”. Scusate: e la politica estera? E la politica economica? E la politica istituzionale? E a quale lettura della società italiana corrisponde il nuovo connubio? Questa è la trappola che si prepara per la sinistra. Con Prodi che per la sua biografia e il suo ruolo attuale ancora una volta ricopre la parte della pietra di inciampo. Non spendibile né come leader moderato, né come leader estremista. Con gli eredi degli anni Settanta che provano a costruire un nuovo soggetto politico, figlio di una visione inclusiva della democrazia e non elitaria-esclusiva, almeno si spera. Questa sì, sarebbe una Grande coalizione, quella vera.