Nel suo realizzarsi, la rivoluzione borghese e industriale ottocentesca distrusse un ordine millenario. Tuttavia, nelle realtà in cui essa si produsse come frutto di un processo di maturazione storica, poggiante su adeguati mezzi tecnici e altrettanto adeguata consapevolezza ideologica, un nuovo ordine si instaurò: quello capitalistico. Ciò avvenne certo a prezzo di condizioni spesso disumane vissute dai ceti intermedi travolti dalla rivoluzione: il grande storico inglese Edward Thompson ci ha lasciato, con tutta la sua opera, un vivido affresco di come questa grande trasformazione marcò la carne viva delle classi subalterne del suo Paese. Ma i profitti di cui i nuovi capitalisti potevano godere – anche grazie alla disponibilità imperiale – permisero il varo di politiche riformiste volte ad alleviare gradualmente gli effetti più tragici derivanti dallo scombussolamento del vecchio assetto, e contemporaneamente ad allargare in maniera lenta ma progressiva la sfera della rappresentanza politica e sindacale. A sostegno non solo materiale, ma anche e soprattutto morale, di questo nuovo ordine si creò un ceto medio economicamente soddisfatto e spiritualmente appagato, fatto di insegnanti, giornalisti, letterati, tecnici, professionisti, che seppero elaborare un ethos e un linguaggio comune all’interno della sfera pubblica, del quale si giovò lo sviluppo della democrazia parlamentare e della lotta politica basata sui partiti.
Nel caso italiano, a causa della forma peculiare – “passiva” – in cui la rivoluzione borghese e industriale fu realizzata, si possono riscontrare poche tracce di questo cosciente passaggio da un ordine all’altro. Anche la conformazione del nostro ceto medio finì per risentirne: le nuove schiere di laureati, diplomati e intellettuali in genere eccedevano largamente in numero le necessità di un ordine liberale immaturo, mentre le retribuzioni loro destinate non erano bastevoli a dar loro uno status adeguato alle aspirazioni di partenza. Di qui il fattore di lungo periodo che ci interessa: in Italia il ceto medio non fu cerniera ideologica e sociale dell’ordine democratico-borghese, ma fattore di instabilità e di turbolenza; mentre, dall’altro lato, una vasta platea plebea, inoccupata e turbolenta, potenzialmente pronta ad ascoltarne le sirene, non trovava più pace nell’assistenzialismo del vecchio regime e non si strutturava ancora in sindacati e partiti moderni.
In politica, questo magma sociale ebbe le sue peculiari ricadute, non contribuendo certo a una nazionalizzazione democratica dei nostri ceti medi. Il fascismo dapprima dette sfogo a questa potenziale riserva politica, poi la congelò a suon di retorica imperiale e di impieghi nel parastato. Ma i caratteri portanti della situazione erano pronti a riemergere nel secondo dopoguerra. Da sinistra, la risposta fu la costruzione del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti, sintesi ambigua ma per molti versi riuscita tra fronte rivoluzionario e al contempo canalizzazione istituzionale del “ribellismo”: comunque lo si voglia intendere, un salto di qualità rispetto al passato e una garanzia di arricchimento della vita democratica.
La Dc utilizzò altri canali per riassorbire le spinte partorite da quelle antiche tare, del cui potenziale eversivo Qualunquismo prima e Laurismo poi costituirono il memento. Il consenso di quell’inquieto ceto medio fu, specialmente a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, “comprato” attraverso la spesa pubblica improduttiva, mentre la competitività internazionale della nostra piccola impresa si avvalse largamente, oltre che della propria capacità innovativa, dell’interesse del potere politico a farla sopravvivere in quanto tale tramite il permissivismo fiscale e il dumping monetario. Questa strategia permise l’acquietamento degli spiriti del ceto medio nostrale, un certo grado di fedeltà alle nuove istituzioni, ma non la sua maturazione democratica. Crollato il Muro, venuta meno con Maastricht la possibilità di comprare consenso, quel grumo sociale che abbiamo visto venire da lontanissimo è esploso in mille schegge. Sono entrate contemporaneamente in crisi e la risposta democristiana e quella del “partito nuovo”.
Con l’esplosione della crisi poi l’impietoso quadro sociale tratteggiato all’inizio si è dilatato fino a collimare coi confini del paese nel suo insieme, travalicando i suoi tradizionali limiti sociali e geografici. Il paese si è meridionalizzato, nel senso che ormai un ceto medio insoddisfatto e sotto-garantito è presente in tutte le regioni, e la miscela è condita dalla disoccupazione operaia dilagante. I figli del ceto medio partorito dal boom economico conducono una acerrima lotta per evitare di cadere in quella condizione subalterna da cui la generazione precedente sembrava esser riuscita a evadere.
Di questa nuova temperie il M5S è senza dubbio l’interprete più autorevole. La sottoccupazione o disoccupazione delle classi subalterne garantisce una immensa riserva di voti e di mobilitazione, mentre gli intellettuali del Movimento provengono da quell’inquieto e turbolento ceto medio, tradizionalmente ostile ai partiti così come i gruppi dirigenti del paese. E invece sarebbe proprio dalla ricostruzione dei partiti, intesi come organizzatori del conflitto e della democrazia, il punto da cui ripartire per risolvere la crisi italiana.