Una coppia di sorelle, in natura, si compone di entità distinte e contrapposte che maturano nell’incredulità di appartenere al medesimo ceppo genetico. Di conseguenza, non sentirete mai due sorelle affermare, l’una a proposito dell’altra: “Lei è la mia migliore amica”. Si tratta evidentemente di un’illusione da figlie uniche, cresciute a pane e Piccole donne. Una sorella è una sorella, è tutto quello che noi non riusciremmo mai a essere. Neanche nel caso in cui, impazzite, lo volessimo davvero.
Una è bella, bionda e dice sempre di sì; l’altra al contrario preferisce mostrarsi in pubblico vestita. Una è magra e con gravi difficoltà di apprendimento; l’altra, stimata professionista, ha un passato da bambina grassa e un presente di hollywoodiano sovrappeso. Che nella dimensione di noi comuni mortali si traduce in taglia quarantadue, andatura insicura e la fiera campionaria di gelati a base panna in frigorifero. Oltre all’immancabile collezione da mille e una scarpa. Perché, si sa, le ragazze che si sentono grasse comprano scarpe per permettersi di indossare una 38 e poi non fanno che guardarle, immaginando seduzioni di rivincita. E se l’una è Maggie, Cameron Diaz nella migliore interpretazione chiappe al vento degli ultimi anni; l’altra è Toni Collette, Rose, paffuta solo per confronto. Hanno in comune – il sangue non è acqua – soltanto il numero di piede, la devozione a Jimmy Choo e una certa tendenza a esprimere le tappe del proprio percorso esistenziale tramite la scelta delle calzature.
Una coppia di sorelle, in natura, rinuncia a proteggere con tagliole il guardaroba solo a seguito di un patto scritto, vidimato da almeno due consanguinei e un direttore di Grande Magazzino. Rose, che è creatura generosa, si limita a minare il percorso tra i suoi armadi con post-it che una sorella vera è allenata da anni ad aggirare senza lasciare traccia. Maggie l’impicciona non usa nemmeno questa premura. Sopravvive solo perché si tratta di un film: In her shoes, appunto, piuttosto diligentemente tratto dall’omonimo romanzo per pollastre di Jennifer Weiner. La trama è di quelle che si capiscono dall’elenco dei personaggi: sorella bionda regolarmente cavata d’impaccio da più affidabile sorella mora, amante mascalzone di sorella mora della cui faccia abbiamo imparato a non fidarci mai, padre affettuoso incapace di gestire qualsivoglia questione familiare, madre deceduta, tradizionale matrigna meritevole di morte, collega che corteggia sorella mora – con detestabile aria da saputello ma è quello di cui una ragazza troppo sola ha bisogno, ci hanno detto – bruttino ma tanto caro. Chiaro, no? E vissero tutti felici, contenti e graziosamente calzati.
La fata madrina ha i modi impeccabili di nonna Shirley MacLaine e dispone di un agguerrito Esercito di Vedovi Immacolati di stanza in Florida. Senza affanno alcuno dipana i nodi irrisolti nelle storie delle nipoti scapestrate, dei familiari di contorno, dei vicini di casa e – già che si trova – del film tutto. Che alla fine riesce a strapparci qualche risata e pure un po’ di cuore, principalmente per abitudine all’autocompiacimento. Ma che, soprattutto, scatena un genuino sdegno per la quantità di scarpe innocenti impunemente maltrattate durante la lavorazione.