Che la scuola debba avere (e abbia in ogni caso) un compito educativo è asserto talmente scontato da dire poco più di quanto affermi una tautologia. Proprio per questo motivo ho sempre considerato con un certo sospetto le posizioni di chi, a vario titolo e con diverse sfumature ideologiche e concettuali, insiste con veemenza sulla necessità che, appunto, la scuola sia (finalmente diventi, torni a essere, sia consapevole di costituire) un’agenzia educativa fondamentale per la società. Il sospetto consiste nel fatto che, data l’evidenza dell’assunto, esso nasconda dell’altro: auspichi, ad esempio, che la scuola si faccia veicolo non tanto di un’educazione in genere, ma di un preciso progetto ideologico.
Nei giorni scorsi molti quotidiani hanno riportato con rilievo, sotto titoli come “Catastrofe educativa” o “Emergenza nazionale”, un appello sottoscritto da cinquantotto illustri personalità del mondo accademico, del giornalismo, della cultura, provenienti in buona parte (anche se non esclusivamente) dal milieu ciellino, con l’aggiunta, oltre a quello forse scontato di Giuliano Ferrara, di nomi imprevedibili, o se non altro per me sorprendenti: Magdi Allam, Antonio Polito, Pupi Avati, Ferruccio De Bortoli, Giorgio Israel. L’appello si apre con un sottotitolo che, in modo un po’ sgraziato, recita: “Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio”. Poi prosegue identificando il problema: “L’Italia è attraversata da una grande emergenza. […] Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere”. Infine, il rimedio: “Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti”. Il tutto accompagnato dal rimando a uno dei più famosi e importanti scritti di don Giussani, in occasione della sua ristampa, Il rischio educativo.
Ora, non saprei bene dire a proposito di università, giornali e televisione, ma certamente per quel che concerne la scuola, e segnatamente la scuola secondaria superiore liceale nella quale lavoro, l’appello appare francamente balzano per questioni di sostanza e di metodo.
Per quanto riguarda la sostanza, verrebbe da dire che negli ultimi anni la scuola italiana ha patito il problema opposto rispetto a quel che i firmatari dell’appello indicano: non una crisi della vis educativa, bensì la trasformazione della scuola stessa in agenzia di spaccio di “educazioni” spicciole e settoriali (“alla salute”, “alla cittadinanza”, “alla socializzazione”, “stradale”, “alla dimensione europea”, “alla mondialità”, per citare solo alcune delle denominazioni più alla moda). Il vero rischio che tale trasformazione comporta è, con ogni evidenza, non tanto la paventata incapacità di veicolare contenuti educativi (i quali, anzi, abbondano), quanto piuttosto il venir meno di capacità, tempo e risorse per indurre negli studenti una riflessione critica: la scuola diventa così il luogo in cui si comunicano “decaloghi”, prontuari di istruzioni per l’uso, dogmi civili certamente importanti (forse non può esistere una comunità umana organizzata senza un patrimonio di “miti” fondatori o anche solo di orientamenti comuni), ma non più culturalmente elaborati, o almeno, non elaborati a sufficienza. Da tale mancanza di elaborazione critica, oltretutto, sorgono sovente reazioni di rifiuto anche violento da parte degli studenti, i quali percepiscono i “doveri” che la scuola comunica loro come un corpo estraneo, o dal quale estraniarsi.
Dal punto di vista del metodo, l’appello sembra suggerire la necessità di un rafforzamento del carattere “etico” dell’educazione, quasi che la mera trasmissione critica dei contenuti fondamentali della nostra tradizione culturale e di rilevanze essenziali di quelle altrui non fosse, già di per sé, fattore di educazione. Asserire che nelle scuole italiane oggi insegna una generazione di adulti incapace di educare i propri figli/studenti significa non avere un’idea adeguata di ciò che accade realmente, o di confondere per “incapacità di educare” la capacità addirittura ipertrofica di “educare” a modelli, valori e parametri che non coincidono con i propri.
Detto in altri termini: la sensazione è che nell’appello e nella mentalità che l’ha ispirato si usi, consapevolmente o meno, la parola “educazione” come grimaldello per avere accesso ad altro, cioè alla determinazione e al perseguimento di ciò che nella chiusura dell’appello viene definito “il bene del nostro popolo”. Come se qualcosa come “il bene del nostro popolo” fosse alcunché di già dato e di attingibile, di predefinito, di sottratto a quello sviluppo ermeneutico che proprio la storia della cultura occidentale ha prodotto come suo frutto metodologico più rilevante.
Si può educare un “popolo” pretendendo di svincolarlo dall’attitudine fondamentale della sua stessa storia culturale? Posso pretendere di “educare” i miei studenti facendo altro che non sia aiutarli, con pazienza, a problematizzare e mettere in discussione quella stessa tradizione che apprendono e alla quale appartengono? Esiste un’appartenenza all’Occidente (qualunque cosa esso sia) che non comporti, come suo elemento essenziale, la capacità di prendere le distanze da ogni forma di appartenenza che si proponga come indiscutibile?
Ammettendo per un istante che il mostro della diseducazione nichilista temuto dai firmatari dell’appello esista davvero e non sia solo un fantasma (spaventoso finché si vuole, ma evanescente), il rimedio non può essere, come sembra venga suggerito, la contrapposizione ad esso di un apparato ideologico uguale e contrario che contrasti gli avversari dall’alto di una presunta pienezza d’essere che si ritiene di possedere e di poter trasmettere alle nuove generazioni, quanto piuttosto un metodo educativo, quello sì “rischioso”, che si affidi alla libertà del docente e del discente, che le provochi, le costringa ad emergere, a confrontarsi, a fondersi tra esse e con i contenuti culturali del loro dialogo.