Parlare di industrie della cultura e di fabbriche della creatività non è una metafora. O almeno non è solo una metafora.
La vulgata, sempre più diffusa anche in Italia dove finora le parole hanno più valore di ogni azione concreta, vuole che le industrie culturali e creative possano diventare il centro dell’economia di un paese. E in effetti in Europa il settore culturale e creativo produce circa il doppio del fatturato dell’industria automobilistica e occupa diversi milioni di lavoratori e addetti. La vastissima letteratura in materia ci spiega che in Italia la catena del valore prodotta dalla filiera culturale e creativa genera un contributo all’economia superiore al 9 per cento del pil e che gli occupati del comparto sfiorano il milione e mezzo, e che diventano quattro milioni e mezzo se consideriamo l’intera filiera. Il nostro paese, inoltre, secondo i dati Unctad 2008, è tra i maggiori esportatori di beni culturali e creativi nel mondo, con circa 28 miliardi di dollari di ricavi (concentrati soprattutto nel settore del design) e una quota del mercato mondiale che nel 2008 sfiorava il 7 per cento, ma che nel 2005 si attestava addirittura sull’8,35.
Se le dimensioni del comparto sono indubbiamente quelle di un grande settore industriale, il suo perimetro è tanto difficile da definire quanto facile da sopravvalutare, specie se si fa riferimento alla cosiddetta “filiera lunga”. Ne fanno certamente parte i beni culturali e lo spettacolo, il cinema e l’audiovisivo, la musica e le industrie musicali, il design (con tutto ciò che contiene), l’editoria, la comunicazione, la pubblicità. Le certezze, però, calano quando si parla di creazione di videogiochi e di software, di alta ristorazione, di produzione agroalimentare, di turismo, sebbene non si possa negare che la creazione di un videogioco o di un menù d’alta cucina richiedano una mente creativa, che la produzione agroalimentare tipica sia parte della cultura di un territorio e che attraverso il turismo si possano trasmettere valori culturali e conoscenza. Il problema non è di poco conto: se determinati segmenti dell’edilizia (quelli legati alle opere civili e di pubblica utilità) devono essere inclusi – grazie alla mediazione dell’architettura – tra le industrie culturali e creative, dovranno necessariamente essere sottratti al settore dell’edilizia propriamente detto. Lo stesso potrebbe dirsi a proposito del design tessile: è parte dell’industria del tessile o dell’industria della creatività? Il turismo (anche quello culturale) va collocato nella filiera della cultura o, più tradizionalmente, tra i servizi?
Del resto, come potremmo pretendere maggiore nettezza, se il prodotto di queste industrie non è un manufatto concreto ma un bene intangibile, solo provvisoriamente adagiato o incorporato in un supporto materiale? Insomma, le fabbriche della cultura e della creatività sono edifici pieni di spifferi e di varchi dai quali entrano ed escono all’occorrenza interi settori, insieme a punti percentuali di pil e piccole o grandi armate di lavoratori e addetti.
Fin qui la premessa, tanto più necessaria poiché in Italia quando ci si riferisce alle industrie culturali e creative, si parla ancora della materia con cui sono fatti i sogni. Ma la più rilevante differenza che corre tra le fabbriche tradizionali – quelle della Coketown dickensiana o della Taranto contemporanea, per intenderci – e le fabbriche della creatività è che queste ultime sono immateriali come i beni che producono. Non esiste più l’opificio propriamente detto in cui i lavoratori sono radunati per un determinato numero di ore al giorno e dal quale entrano ed escono al suono della sirena. Non esistono pause per il pranzo, non esistono le chiusure agostane e, di norma, non esistono scioperi e neanche rivendicazioni. Non esistono, infatti, neanche contratti collettivi, spirito e solidarietà di classe: si sono smaterializzati anche i sindacati e i diritti. I lavoratori, gli operai delle fabbriche della creatività e della cultura ci sono e, paradossalmente, sono simili a quelli dickensiani: il loro lavoro è precario e possono essere emarginati e sostituiti in qualsiasi momento; i salari sono bassi; i tempi di lavoro sono enormemente dilatati e vanno ben oltre le 40 ore settimanali; l’offerta di forza lavoro è molto più ampia della domanda e questo consente il gioco al ribasso sui compensi. Ed è sempre più diffuso anche il free labour , legato all’implicito obbligo di lunghissimi periodi di praticantato divenuti parte integrante del percorso di studi. Ammesso e non concesso che lo stesso iter di studi non si trasformi, come accade in Corea, in un vero e proprio corso semi militare di addestramento alla creatività.
Quello che cambia, che è cambiato, sono proprio i lavoratori, o quanto meno l’idea che essi hanno di se stessi. Perché la classe creativa che a lungo è stata se non felice, almeno complice della propria condizione di minorità, si è resa conto di non essere andata in paradiso. E oggi spera di essere almeno titolare di diritti, tariffari minimi e contratti collettivi. Alla base della sindrome autolesionista che ha percorso (e in parte continua a percorrere) intere generazioni di designer, programmisti registi, fotografi, curatori di mostre ed eventi, pubblicitari, c’è la straordinaria seduzione che il lavoro creativo esercita su giovani e meno giovani: una fascinazione talmente intensa da far sopportare qualsiasi sacrificio al lavoratore in nome della possibilità di sentirsi parte della classe creativa, di quella immaginaria élite che si illude di svolgere il proprio lavoro in autonomia, di essere riconosciuta socialmente e di autorealizzarsi. Di fatto, però, il miraggio dell’autonomia è in realtà la certezza di tempi di lavoro (formale o informale) infinitamente espansi, che invadono ogni interstizio della vita: prevale sempre e comunque la necessità di rimanere aggiornati su tutto quanto accade, di mantenere rapporti, di essere sempre preparati alla richiesta di una inattesa prestazione, di procurarsi nuovi contratti. E in questo contesto il lavoratore si sottopone a un autosfruttamento che comporta anche la continua trattativa al ribasso del proprio salario, che non compensa le ore di lavoro ma il solo risultato finale.
Il reale riconoscimento economico e sociale, peraltro, riguarda solo pochissimi soggetti: archistar, docenti universitari incardinati, musicisti e attori di fama, pubblicitari di successo, autori televisivi affermati. Questi rappresentano la vera aristocrazia della cultura e della creatività, che fa di tutto per autopreservarsi mentre fuori preme un brulicante mondo di gregari che confidano, prima o poi, di essere ammessi nel cerchio magico.
A tutto questo si aggiunge poi il problema della rendita pressoché improduttiva di cui beneficiano i grandi gruppi industriali della creatività, primi fra tutti i detentori dei diritti di sfruttamento delle creazioni. Essi godono in maniera assolutamente sproporzionata di flussi finanziari che vengono ridistribuiti solo in minima parte tra coloro che hanno effettivamente dato vita alla creazione. E d’altro canto sono proprio questi soggetti – i gruppi industriali e l’empireo dei beati – a esercitare un controllo quasi militare su produzione, distribuzione e commercializzazione delle altrui creazioni, determinandone la fortuna o l’oblio. Ma ecco che la crisi economica ha infranto, o almeno fortemente incrinato, il mito della classe creativa. Questa, infatti, di fronte a un’insicurezza sempre crescente (compensi sempre più bassi, pagamenti dilazionati negli anni, difficoltà di procacciarsi nuovi contratti), alla tendenza dell’impresa manifatturiera ad avvalersi sempre meno dei creativi e a ricorrere alla via bassa della ripetizione (a investire sempre meno, in sostanza, nell’innovazione), all’aggressività dei paesi emergenti, ha preso coscienza di non essere affatto una classe. E i suoi presunti componenti si sono ritrovati nel volgere di pochi mesi nelle meno eleganti scarpe di semplici lavoratori sottopagati, sottoposti a nuove malattie professionali e ad ansie performative senza pari, in feroce concorrenza tra loro, privi delle minime tutele. Quelli che fino a pochi anni fa si definivano orgogliosamente freelance o lavoratori autonomi si sentono oggi, sempre più spesso, semplici e convenzionali precari. E laddove prima bastava riconoscersi attorno all’autodefinizione di classe creativa, oggi ci si allontana dal modello delle reti polverizzate in cui “ciascuno fa da solo”, e si procede verso reti solidali e cooperative, fino alla rivendicazione, inconcepibile solo pochi anni fa, di un sindacato dei creativi. Tendenza comune anche ai lavoratori della cultura che hanno vissuto precocemente il fenomeno di precarizzazione e proletarizzazione che ora travolge i creativi, e che da alcuni anni si riuniscono in associazioni professionali che li rappresentano e garantiscono la loro professionalità.
Le fabbriche immateriali del XXI secolo sono, dunque, sempre più simili a quelle del XIX: affollate di lavoratori in cerca di diritti. Anche a costo di rispettare l’orario della pausa pranzo.
D’altra parte come dar loro torto visto che, come scrive David Hesmondhalgh, il lavoro di creativo is the hardest way to make an easy living.