Diciamocelo subito chiaramente: Matteo Renzi ha il diritto di sbagliare. Comunque la si pensi sul finanziamento pubblico ai partiti, sul mercato del lavoro, sulla legge elettorale o sul modo in cui il neosegretario del Pd ha presentato la sua strategia nel discorso di insediamento all’assemblea di Milano, tutti hanno il dovere di rispettare il risultato uscito dalle primarie, tanto più coloro che lo hanno contrastato in nome di un altro modello di partito e di una diversa concezione del modo in cui in un partito si dovrebbe stare quando si è in minoranza. Non è una questione di disciplina. È una questione di buon senso: dopo che milioni di persone si sono mobilitate, hanno votato e a stragrande maggioranza hanno scelto un leader, non si può cominciare a fargli le pulci sin dalle prime parole che dice. Perché non è giusto e perché non è neanche bello a vedersi.
Di sicuro, ad esempio, non è suonata come una felice conferma del grande rinnovamento in atto vedere che a Milano, quando Renzi aveva appena finito di pronunciare il suo primo discorso da segretario, Giuseppe Civati era già davanti alle telecamere a spiegare perché e per come l’offensiva su Grillo fosse sbagliata e controproducente. Tanto meno aveva il sapore del nuovo che avanza, sui giornali dell’indomani, la quarta o quinta replica della telenovela intitolata “Romano Prodi abbandona il Pd”. Con il consueto corredo di foto storiche e l’immancabile elenco degli affronti che il professore avrebbe subito da parte di quegli stessi dirigenti che negli ultimi vent’anni l’hanno candidato ed eletto due volte capo del governo italiano e una volta capo della Commissione europea.
Matteo Renzi potrà anche meritarsi tutto questo, ma quei milioni di persone che nonostante tutto hanno cercato nel Pd, nei suoi gazebo, nei suoi circoli e nel suo leader una risposta ai problemi dell’Italia, problemi pesanti come non mai, no: loro meritano almeno che la scelta che hanno compiuto venga rispettata. Chi come noi, invece, la partita delle primarie l’ha persa, deve anzitutto fare i conti con questo semplice dato di fatto: che oggi la linea di Renzi è la linea del Pd.
Qui però si pone un problema non da poco, perché ascoltando non solo come vengono presentati, ma anche come continuano a presentarsi e a presentare le proprie posizioni i cosiddetti renziani, si direbbe che i primi a non credere fino in fondo in quella identificazione siano proprio loro. Che i primi a presentarsi come un corpo estraneo all’interno del Pd siano proprio coloro che del Pd rappresentano oggi la nuova maggioranza. Non è un problema di galateo. Le correnti, naturalmente, ci sono sempre state. Ed è bene che ci siano in tutti i partiti, per lo stesso motivo per cui è naturale ed è bene che ci siano diversi partiti in una democrazia. Mai però si era arrivati al punto che i massimi dirigenti di un partito non si presentassero più pubblicamente come tali, anzi tendessero sempre più spesso a scaricarsi di tale responsabilità in nome della propria appartenenza di corrente. E così, oggi che la minoranza di ieri è divenuta maggioranza – e dunque, legittimamente, sono anzitutto i suoi esponenti a prendere la parola sulla scena pubblica – siamo al paradosso che in Italia sembra non esserci più nessuno titolato a rispondere delle scelte del Pd. Lo diciamo senza nessuna acrimonia e men che meno con spirito di rivalsa, ma proprio con il cuore in mano: non è un buon viatico, questo, per chi voglia chiedere agli italiani la responsabilità di governare il paese.
Con spirito altrettanto equanime, però, va detto anche che se siamo arrivati a questo punto la prima responsabilità non è di Renzi né dei renziani. Se anche il Partito democratico, a dispetto di tanta retorica, rischia di presentarsi oggi come l’ennesimo partito personale, per non dire come una monarchia assoluta (sia pure elettiva), la responsabilità è innanzi tutto di chi, come noi, nel 2009 le primarie le aveva vinte, dando battaglia proprio contro il modello del partito “fondato sulle primarie”. E dopo averle vinte con Pier Luigi Bersani in nome dell’esigenza di correggere tale impostazione ha finito invece per accentuarla, com’è da tempo sotto gli occhi di tutti. Da un certo punto di vista, si torna dunque alla casella di partenza: al modello americano, al partito leggero fondato sulle primarie, al primato del leader. E tuttavia la difficoltà degli stessi renziani a uscire dalla rappresentazione del “corpo estraneo” inculcato nel cuore della sinistra mostra tutta la fragilità di questo impianto. Comunque la si giudichi nel merito, la rottamazione può essere l’eccezione, non la regola: se al trionfo di un rottamatore fa seguito senza soluzione di continuità l’apparire del rottamatore successivo, è evidente che del partito come tale, dopo un paio di giri, resterà solo un cumulo di rottami. Il pericolo, insomma, non è la scissione, ma la balcanizzazione.
Evitare un simile rischio è responsabilità dei vincitori e anche degli sconfitti. Ma questi, come tutti gli sconfitti, hanno prima di tutto il dovere di non perdersi d’animo. Perché è vero, certamente, che la storia della sinistra italiana di sconfitte non è mai stata avara, come ci ricordano spesso coloro che a quella storia guardano dall’alto in basso, essendo abituati a guardarla sempre dal carro dei vincitori. Ma se questo è vero la ragione, oltre che nell’esiguo numero di vittorie elettorali, sta anche nell’inesauribile capacità di non lasciare mai che le sconfitte elettorali si tramutassero in disfatte politiche, anzi nel trasformarle molte volte nella base di più solide e più durature avanzate sul terreno sociale, culturale e successivamente, di conseguenza, anche elettorale.
Chi creda ancora nella vitalità di questa storia nulla può temere da una sfida in mare aperto. La sinistra non è un modello organizzativo, la sinistra è ciò che alle forme organizzative che conosciamo ha dato vita. E così continuerà a fare, ogni volta che nuovi tempi e nuove condizioni lo renderanno necessario, almeno fino a quando sarà necessaria essa stessa a una parte della società italiana. Perché questo è il punto: se e quanto una parte della società italiana continui ad avvertire tale necessità. Rispettare l’esito del congresso non significa dunque rinunciare al proprio diritto di parola. C’è una differenza tra la polemica fine a se stessa e la legittima difesa di un punto di vista, tra l’eterno gioco della divisione e del logoramento reciproco e la costruzione di un dibattito aperto e pluralista, dentro e fuori il Pd. Una differenza che non sta tanto nei modi, quanto nel merito delle questioni su cui si decide di dare o non dare battaglia, aprire o chiudere la discussione.
Dovrebbe essere inutile aggiungere, da questo punto di vista, che per una forza di sinistra i diritti del lavoro vengono prima di tutto il resto. Perché è anzitutto su questo che si gioca la possibilità di rappresentare ancora effettivamente qualcuno. Ma chissà che alla fine l’ultimo paradosso di questa vicenda non sia che il modello del partito aperto, federazione di comitati elettorali e organizzazioni collaterali, non permetta proprio alla sinistra – a chi, come noi, quel modello ha sempre contestato e continuerà a contestare – di ricostruire più solide fondamenta nella società. Quanto un simile esito sia effettivamente possibile non dipende solo da Renzi, ovviamente, ma anche da ciascuno di noi. E questo ci carica dunque di una doppia responsabilità. Perché giunti a questo punto, se Renzi ha il diritto di sbagliare, noi abbiamo il dovere di non sbagliare più.