Mai come in questi giorni si vede quale sia la conseguenza peggiore della personalizzazione della politica: la politicizzazione delle questioni personali. Ma anche questo, a pensarci bene, è un effetto collaterale della de-politicizzazione della società, che non può non coincidere con un indebolimento della democrazia e un rafforzarsi delle spinte autoritarie. Da tempo, infatti, qualsiasi manifestazione di dissenso, in ogni ambito, è vista come riprovevole e descritta in termini spregiativi su tutti i mezzi di comunicazione, si tratti di sindacati che pretendano di mettere bocca sulle condizioni di lavoro, di partiti che osino discutere le scelte compiute dal governo nella manovra finanziaria o di correnti interne a questo o quel partito che si permettano di mettere in discussione le parole del segretario. Nel primo caso si parlerà di battaglie ideologiche e conservatrici, nel secondo di “assalto alla diligenza”, nel terzo di oscure trame e macchinazioni, ma la sostanza è sempre la stessa: non disturbate il manovratore.
In fondo lo scontro attorno alle affermazioni di Matteo Renzi e le successive dimissioni di Gianni Cuperlo (e prima di Stefano Fassina), non sono che l’ennesima replica di una rappresentazione che da venti anni si ripete sempre uguale a se stessa. Uscita di scena la politica, ogni obiezione viene percepita come un attacco personale, cui rispondere sullo stesso piano. D’altra parte, un pezzo non irrilevante del problema sta nel fatto che da venti anni la politica è effettivamente uscita di scena, dunque resta ben poco di cui discutere, nel merito. Anzi, caratteristica della sinistra in quest’epoca sembra essere proprio un’arrendevolezza che rasenta il disinteresse sulle questioni di merito, compensata da un’intransigenza che sfiora il fanatismo sulle questioni di metodo. Si pensi, per fare un solo esempio, a come una scelta fondamentale e dalle conseguenze concretissime per il futuro di tutti gli italiani quale la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio sia passata in un attimo e quasi senza discussione. E a quali e quante discussioni laceranti abbiano invece diviso la sinistra in questi anni attorno a domande del genere se venga prima il partito o la coalizione, se il segretario del partito debba essere eletto dagli iscritti o dagli elettori, se si debba o non si debba parlare con Silvio Berlusconi.
L’esempio più lampante è dato però dalla crisi che ha spaccato il Pd sull’elezione del presidente della Repubblica, con Pier Luigi Bersani che si dimette accusando di tradimento i 101 franchi tiratori che non hanno votato Romano Prodi e con Matteo Renzi che rivendica la sua indicazione di votare in dissenso (se non altro nella votazione precedente su Franco Marini), con l’argomento che lui e i suoi parlamentari quel che intendevano fare lo avrebbero “detto in faccia”. Finendo così entrambi per accreditare l’idea che il problema non fosse una questione politica – la scelta cioè di spaccare il Pd nel momento più delicato, precipitando il paese intero in una crisi istituzionale apparentemente senza sbocco – ma ancora una volta una questione di forma, per non dire di galateo, comunque di carattere personale: il non averlo detto prima.
Se si leggono interviste e ricostruzioni di tutti coloro che hanno guidato il centrosinistra in questi venti anni, da Achille Occhetto a Pier Luigi Bersani, da Romano Prodi a Walter Veltroni e Massimo D’Alema, quello che colpisce più di ogni altra cosa è questa sorprendente coincidenza di vedute: chi più chi meno esplicitamente, ciascuno di loro rappresenta se stesso e la propria stagione alla guida della sinistra come una grande occasione mancata, mai però mancata per propri limiti o per propri errori; sempre, invece, a causa delle trame, dei complotti, del tradimento di altri dirigenti, ognuno dei quali peraltro mostra di nutrire nei suoi confronti la medesima convinzione.
Se ne potrebbe trarre la conclusione che abbiano tutti ragione, che la sinistra italiana sia effettivamente quel covo di vipere che la stampa descrive ogni giorno, potendo contare su tante e così autorevoli fonti, e ormai su un’intera letteratura memorialistica tutta ispirata a questo schema interpretativo. Ma se si guarda alla sostanza delle scelte politiche compiute da quei gruppi dirigenti, invece che alle mille questioni di metodo che hanno caratterizzato i loro eterni bisticci, si vede piuttosto che hanno tutti torto: per la semplice ragione che sul merito erano d’accordo. E infatti, nella sostanza, hanno fatto tutti più o meno le stesse cose (aderendo a un’idea di sinistra liberale sul modello della Terza via e a una costruzione della moneta unica europea fondata sulla filosofia dei parametri di Maastricht). Ma forse una delle ragioni della loro incessante litigiosità sta proprio nel fatto che è più facile, anche psicologicamente, rinfacciarsi l’un l’altro la colpa dei rispettivi insuccessi, che riconoscersi tutti insieme in un grande fallimento collettivo.
Dunque è da qui che bisogna ripartire, se si vuole uscire da un dibattito sempre più autoreferenziale, recriminatorio e pettegolo, giocato sempre di più su invettive e insinuazioni. Bisogna ripartire da una discussione più seria e più sincera non sui mille dettagli attorno ai quali ci si è divisi aspramente alle ultime primarie o nell’ultima direzione, ma sulle tante questioni di fondo sui cui da venti anni nessuno ha il coraggio di mettersi davvero di traverso. Non sul problema se il premio di maggioranza debba scattare al 35 o al 40 per cento, per fare un esempio, ma sull’idea stessa del premio di maggioranza (e più in generale di un bipolarismo di coalizione). Non sulla questione, per dirne un’altra, se sia giusto o meno trattare con Silvio Berlusconi (ed eventualmente dove), ma sulla ben più significativa circostanza che negli ultimi anni molti a sinistra hanno finito per sposare integralmente la sua concezione istituzionale, fondata su forma di governo presidenziale e legge elettorale maggioritaria.
Su ciascuno di questi argomenti ogni posizione è ovviamente legittima. Quello che è meno legittimo, oltre che politicamente suicida, è continuare a discutere dei dettagli, del metodo e della forma per non discutere della sostanza, dando così all’esterno un’immagine misera e strumentale del proprio dibattito interno. Se si vuole contrastare la personalizzazione della politica il primo passo è smettere di personalizzare. Magari anche ricominciando a parlare un po’ di politica invece che di se stessi.