Le tensioni internazionali per il destino dell’Ucraina non sembrano placarsi. Abbiamo sinora assistito a un’escalation di timori, minacce, movimenti di truppe e un susseguirsi incessante di vertici. L’autodeterminazione della Crimea e la rivolta delle comunità russofone e filo-russe a Odessa, Kharkiv e Donetsk spingono sempre più il paese sull’orlo del conflitto.
L’Ucraina, già prossima al default economico, è ostaggio da mesi di un redde rationem tra le forze oggi al governo di Kiev, filo-europee e dalla chiara marca nazionalista, e gli orfani del presidente Yanucovich, spodestato dalla lunga rivolta di Euromaidan. Il paese tuttavia non è solo vittima dei suoi scontri interni, ma è l’epicentro della più rilevante crisi del multilateralismo di inizio secolo. Una rottura che riporta alla memoria pratiche diplomatiche del passato, ma al contempo – a guardar bene – inaugura una nuova stagione del confronto multipolare, caratterizzato dalla contesa tra aspirazioni geopolitiche in aperta contrapposizione.
Di usuale in questo scenario c’è il tradizionale scenario geografico al confine tra Europa e Asia, su cui vecchi e nuovi attori affilano le armi per l’egemonia di quella delicata “faglia” tra le potenze regionali, di cui l’Ucraina è il fulcro e anche l’anello più debole.
La determinazione dei protagonisti di questo scorcio storico è la stessa descritta magistralmente ne Il Grande Gioco di Peter Hopkirk (da cui sono tratte le citazioni successive), un caposaldo sulle lotte euroasiatiche tra i grandi imperi, che ci accompagna tuttora nella lettura del presente.
Il referendum per l’autodeterminazione della Crimea, sotto lo sguardo compiaciuto di Mosca e dei suoi militari fuoriusciti dalla storiche basi russe in territorio ucraino, è sicuramente una violazione del diritto internazionale. Questa forzatura rischia di aprire scenari imprevedibili e ha indotto qualcuno a parlare di un nuovo Kossovo. Si tratta di un paragone del tutto fuorviante, perché sono talmente tante le differenze tra i due casi che non vale nemmeno la pena di elencarle. Ma non vuol dire sottovalutare il fatto che per quel lembo di terra, già noto nell’Ottocento per un conflitto tra potenze regionali, passano i destini di un “nuovo grande gioco”.
“Caterina poté annettere al suo impero, senza spargimenti di sangue, il canato di Crimea. Vi riuscì, per citare le sue parole, semplicemente «collocando in luoghi adatti cartelli dove si annunciava agli abitanti della Crimea che li avremmo accolti come nostri sudditi». […] Ora il Mar Nero non era più un lago turco”.
Sedotti dalla facile suggestione del mito dell’Unione Sovietica, altri osservatori e molti media hanno raccontato la crisi ucraina di questi giorni come lo svelamento delle reali intenzioni di Vladimir Putin. Per la verità il presidente russo non ha mai nascosto il suo dispiacere per la scomparsa dell’Urss, eppure non è la nostalgia per “l’Impero del Male” la giusta chiave di lettura per comprendere quello che accade tra Kiev e Mosca.
La partita che si sta sviluppando non è il frutto di anacronistiche nostalgie, ma una guerra di posizione, giocata fino a ieri con le armi della politica e dell’economia, e oggi pronta a sfociare in un conflitto con armi vere, alla frontiera fra Federazione Russa e Ue, col rischio ormai imminente di un ritorno al gelo nei rapporti euro-russo-americani, come appare dalle dure dichiarazioni degli ultimi giorni del segretario di stato Usa, John Kerry, e di molti altri capi di governo occidentali sul referendum in Crimea e sulle posizioni di Mosca.
Negli ultimi dieci anni tra Ue e quella che nei sogni di Putin dovrebbe essere l’Unione Eurasiatica si è andata disegnando una linea di frattura che ha finito per concentrare nell’Ucraina la frontiera simbolica tra Est e Ovest, la trincea più manifesta e delicata su cui Putin sembra voler giocare la sua scommessa più importante. Al di là della cortina della retorica e dei vertici europei, e a dispetto dei buoni propositi di cooperazione e gas-diplomazia tra Bruxelles e Mosca, sembra tornare prorompente la rediviva idea neo-sovranista russa, capace di mobilitare l’orgoglio e l’irredentismo panrusso, e che è stata recuperata per tracciare un confine invalicabile ai progetti europei.
“Frattanto, approfittando delle angustie e della debolezza militare della Russia, i vicini europei – i principati tedeschi, la Lituania, la Polonia, la Svezia – cominciarono a impossessarsi del suo territorio. […] Così nei russi, schiacciati tra i nemici europei a ovest e i mongoli a est, si sviluppò quel timore paranoide dell’invasione e dell’accerchiamento che non ha più cessato di condizionarne le relazioni internazionali”.
Dopo la sconfitta di Yanucovich, Putin teme il restringersi della sua area di influenza e sembra pronto a tutto per difenderla, semmai a estenderla, ispirato non tanto dal mito dell’Urss, ma da quello della Grande Russia. Non è un caso che Mosca avesse promesso aiuti a Kiev per 15 miliardi di dollari (3 sono già stati versati) a fronte di un piano di aiuti di Ue e Fmi, che si era arenato, e a fronte della proposta della sola Europa, prima delle rivolte, di aiuti per appena 160 milioni di euro per 5 anni: un’inezia se consideriamo che l’Ucraina è alla bancarotta, con la fuga di più di 75 miliardi di dollari all’estero. Il Cremlino puntava all’entrata dell’Ucraina nell’Unione doganale, assieme a Bielorussia e Kazakistan, e dal 2015 nell’Unione economica Euroasiatica: un progetto che oggi rischia di sfumare o per lo meno di ridimensionarsi.
La contendibilità dell’Ucraina, tuttavia, è anche frutto della perenne oscillazione della sua politica estera, alternativamente sedotta ora dalle offerte di Bruxelles, ora dalle pressioni di Mosca. Nonostante sin dagli anni ‘90 abbia cercato di entrare nella Nato (senza riuscirci per un saggio veto, visto che la presenza ucraina nell’Alleanza Atlantica sarebbe stato una forzatura culturale, politica e tattica), l’Ucraina non ha mai tagliato i ponti con Mosca. Almeno fino a Yanucovich che – pur fortemente contrastato – ha inaugurato la sua presidenza nel 2010 firmando gli accordi di Kharkiv, con i quali Mosca si è assicurata la base di Sebastopoli in Crimea (unico accesso al Mediterraneo) sino al 2042, in cambio di uno sconto sulla bolletta del gas.
Oggi Putin teme che Kiev, finendo sotto influenza occidentale, possa rappresentare un precedente che altri paesi potrebbero imitare, poiché il suo problema è soprattutto fermare l’avanzata occidentale che, già con gli accordi con i paesi baltici, ha guadagnato terreno. Visto dalle cancellerie europee, l’allargamento a est dell’Ue è sembrato una dolce marcia trionfale dei valori dell’occidente continentale, ma visto da Mosca è apparso come un’offensiva che ha significato la perdita di attuali o potenziali aree di influenza. Ecco perché l’Ucraina era fino a ieri un paese corteggiato da molti e oggi può diventare un paese conteso.
Il raffreddarsi delle relazioni tra Ucraina e Europa, culminato con il caso di Yulia Tymoshenko e col fallimento del vertice di Vilnius nel novembre scorso (che avrebbe dovuto portare all’Association Agreement), sembrava riportare l’ex repubblica sovietica verso la Russia. Nel frattempo, come è apparso chiaro alla cerimonia di apertura dei faraonici Giochi Olimpici di Sochi, Putin era pronto a presentarsi sulla scena come il leader dell’Unione Euroasiatica (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, i protettorati in Georgia e Moldavia, e il nord del Caucaso “normalizzato” dalla decennale cruenta campagna antislamica in Cecenia).
“La maggior parte della regione caucasica, Georgia e Armenia comprese, era ormai saldamente in mano allo zar Nicola e incorporata nell’impero russo, ma nelle montagne del Nord le tribù musulmane continuavano a opporre una fiera resistenza”.
L’ultimo tassello di questo mosaico doveva essere l’Ucraina, ma qualcosa è andato storto. Defenestrando Yanucovich, i cittadini ucraini hanno respinto – spingendosi fino all’estremismo nazionalistico opposto – il progetto di russificazione del paese. Ecco perché Putin, un po’ per esercitare pressione sull’attuale governo di Kiev e un po’ per aprire un fronte, ha surriscaldato la questione Crimea.
Si tratta di una partita di poker ad alto rischio per Putin. Con il sostegno al referendum per l’indipendenza della Crimea, il presidente russo si è messo contro le cancellerie di mezzo mondo, la Casa Bianca innanzitutto. Al di là dei toni, le ragioni occidentali sono ovviamente indiscutibili: la condotta di Mosca, tra le altre cose, contraddice i solenni impegni sottoscritti anche da Usa e Russia nel ‘94 riguardo all’integrità, sovranità e indipendenza dell’Ucraina, in accordo con l’Atto finale di Helsinki, che fissava l’assetto territoriale degli stati europei nella configurazione di quel momento, prevedendo che ogni eventuale modificazione dovesse essere frutto di accordi e non di iniziative unilaterali.
Non è escluso che Putin abbia già messo nel conto di sedersi a un tavolo a breve, ma la situazione potrebbe anche sfuggire di mano, considerato che la tensione è alta in tutta la regione, come testimoniano l’arrivo nella base di Lask in Polonia di trecento soldati e di sei F16 americani chiesti da Varsavia, preoccupata per l’evolvere della situazione, e l’invio di altri F15 in Lituania la settimana scorsa.
Allo stesso tempo è vero che Putin potrà anche fagocitare la Crimea, ma se lo facesse perderebbe definitivamente l’Ucraina. In questa direzione, resta da chiedersi quanto strategicamente convenga oggi alla Russia rinfocolare lo scontro frontale. Le azioni muscolari di Mosca non riescono a nascondere la debolezza strutturale di un’economia dipendente dalle vie del gas e del petrolio. Anche a guardarla dal solo punto di vista economico, non è detto che Putin possa perseverare in questa spinta neo-sovranista, visto per esempio che sul gas l’autonomia statunitense e le nuove strategie degli altri paesi non prefigurano scenari incoraggianti per il Cremlino. Le esportazioni energetiche rappresentano il 50% delle entrate russe, un quarto del Pil, e sono dirette per l’80% verso l’Occidente. Se poi si passa ai confronti, non va dimenticato che gli scambi commerciali tra Ue e Russia incidono per l’1% sul Pil europeo e per 15% su quello russo. Siamo ancora sicuri che a Putin faccia comodo una rottura con i suoi migliori clienti?
“Seguendo il consiglio di Lawrence, di fissare un limite preciso a ulteriori avanzate russe, Clarendon propose a Gorcakov che i loro due governi stabilissero non tanto delle sfere d’influenza in Asia, bensì una zona neutrale permanente fra i rispettivi imperi in espansione”.
Cosa fare dunque? Innanzitutto va fermata l’escalation militare e va difeso il principio della integrità territoriale. Poi l’Europa con una sola voce dovrebbe dialogare con la Russia per cercare soluzioni diplomatiche alla crisi. Non è tempo di erigere muri, non bisogna far diventare l’Ucraina l’oggetto del contendere tra Est e Ovest, ma forse bisognerebbe – come ha suggerito Henry Kissinger in un articolo sul Washington Post – pensare all’Ucraina come a un “ponte”. Ha ragione l’ex segretario di stato americano quando dice che “la Russia deve ammettere che il tentativo di costringere l’Ucraina a diventare uno stato satellite, spostando nuovamente i confini russi, condannerebbe Mosca a rivivere cicli fini a se stessi di pressioni reciproche nei rapporti con l’Europa e gli Usa”, ma è anche vero che “l’Occidente deve capire che per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere un paese straniero”.
L’Europa non può smettere di difendere caparbiamente i principi internazionali e di denunciare quando vengono violati apertamente, ma allo stesso tempo deve aprire al più presto un tavolo per condurre la Russia alla ragionevolezza, alla cooperazione internazionale e al rispetto dei trattati. Bisogna puntare a una soluzione consensuale ma realistica. Per dirla sempre con le parole di Kissinger: “Il criterio non è la soddisfazione assoluta, ma l’insoddisfazione equilibrata”.
L’Italia, che guiderà il prossimo semestre di presidenza europeo, ha una responsabilità rilevante, deve spingere i partner del vecchio continente a una vocazione geopolitica unitaria inflessibile sul rispetto dei valori, ma pronta a dialogare con chi, come la Russia, ha strategie politiche – spesso conflittuali – dal Caucaso al Mediterraneo e nel cuore dell’Europa. Specie adesso che la strategia degli Stati Uniti è mutata e lo sguardo della Casa Bianca si è spostato verso altre regioni dell’Asia. Non a caso Washington, forte anche della programmata autosufficienza energetica da shale gas, può permettersi oggi un certo disimpegno in Medio Oriente, dove pure ha focolai di tensione con la Russia.
In definitiva, si è aperto un “nuovo gioco” egemonico tra grandi potenze in movimento verso un riposizionamento geostrategico, senza però la tradizionale bussola di un qualche “asse del male” che orienti le scelte e sullo sfondo di una confusione che rende ancora più evidente l’impasse degli organi sovranazionali, a partire dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
L’Europa, con una politica estera e di sicurezza comune, potrebbe ambire a un ruolo di regolazione dei conflitti e di facilitatrice della cooperazione e del dialogo. Lo potrebbe fare alla luce dell’alleanza con gli Usa e dell’ineluttabile condivisione dei confini con la Russia, ma anche forte del rispetto dei suoi partner asiatici, a partire dalla Cina, e della naturale vocazione a essere ponte nel Mediterraneo e verso l’Africa.
La condizione è che l’Europa diventi consapevole del ruolo che può giocare, uscendo dalle secche delle divisioni e del ritorno al metodo intergovernativo anche in politica estera, che finora hanno partorito un soft power più declamato che praticato.
“Era un gioco rischioso, che richiedeva nervi saldi e una buona dose di spirito d’avventura”.
__
Enzo Amendola è capogruppo Pd Commissione Esteri – Camera dei deputati