Nei commenti al confronto fra Matteo Renzi e Massimo D’Alema abbiamo assistito al grande ritorno di una categoria tanto affascinante quanto scivolosa: il primato della politica. Per molti, infatti, ad accomunare Renzi e D’Alema sarebbe proprio il tentativo di restituire alla politica il ruolo che le spetta, secondo un discorso che ormai da anni descrive la sfida in campo come una lotta tra finanza e politica.
È un’analisi che non convince fino in fondo. Per la stessa ragione per cui non convince l’idea che serva un’Europa politica contro un’Europa delle banche. Il punto è che una “Europa politica” esiste eccome, ed è quella dominata e disegnata dall’ideologia neoliberista (bisognerebbe provare a chiedere ai cittadini greci o tedeschi se la politica e le sue decisioni siano centrali oppure no).
In Italia si continua a rimuovere il fatto che il centro della sfida è in realtà quale politica si mette in campo. In questa rimozione, così come nel compulsivo dibattito sulle “riforme necessarie” (si tratti di riforme istituzionali o del mercato del lavoro), sembra affiorare ancora uno dei pilastri dell’ideologia neoliberista: c’è una sola politica possibile. Dunque al dibattito democratico resta da discutere non già il merito delle riforme, ma solo l’intensità, i tempi, ed eventualmente, con tratti che rasentano la sindrome di Stoccolma, la ricerca delle necessarie coperture economiche. Quello che manca è insomma una discussione sul verso delle riforme, per usare una felice categoria introdotta da Renzi.
Questo nodo è emerso anche nel dibattito D’Alema-Renzi, quando il confronto si è spostato sulla stagione delle terze vie e su cosa a quella stagione è mancato. Ecco il punto, che cosa è mancato allora: il coraggio di spingere l’acceleratore fino in fondo sul terreno dell’apertura al mercato e delle liberalizzazioni, o la capacità di cambiare direzione? Il coraggio e la forza di insistere su quella strada o la capacità di rimettere al centro lo squilibrio di potere tra i diversi soggetti, si tratti del lavoratore rispetto al datore di lavoro o della piccola impresa rispetto alla finanza?
Da come sapremo rispondere a questa domanda, e ad altre simili, si capirà come usciremo dalla stagione del pensiero unico, in quale verso e verso dove. Augurandoci di non ripetere l’errore compiuto negli ultimi anni da tutto il Pd con Bersani, rimuovendo il problema e puntando sull’asse con Monti, ossia la materializzazione corporea dell’austerità, in nome di un europeismo non molto chiaro da contrapporre all’antieuropeismo populista di Berlusconi e Grillo. Con i risultati che abbiamo visto.
Quale riforma del mercato del lavoro metteremo in campo, se e come usciremo dall’austerità – con quali tagli, con quale distribuzione del reddito e delle opportunità – da questo si capirà che strada prenderemo, molto più che da vaghi proclami sulla centralità della politica. Se eludiamo ancora una volta queste domande rischiamo di svegliarci tra qualche anno e di scoprire che una più forte centralità della politica per uscire dalla recessione c’è, ma è ancora una volta la centralità di una politica di destra, che continuerà a far pagare il suo prezzo ai ceti popolari.
Aiutare il Partito democratico e il governo a cambiare verso davvero – e non solo velocità – rispetto alla stagione passata dei governi di centrosinistra: ecco la sfida su cui dovrebbe misurarsi la sinistra del Pd, nelle sue molte anime, piuttosto che nel misurarsi reciprocamente il tasso di anti-renzismo o filo-renzismo.