Non c’è niente di nuovo nel precarizzare la vita di milioni di persone. La sinistra italiana lo ha fatto a più riprese, dagli anni 90 in poi, credendo a chi teorizzava che col sacrificio delle tutele si sarebbe creato d’incanto nuovo lavoro. Una tesi già in sé discutibile per lo scambio che propone, ma tanto più insopportabile perché infondata, come la storia di questa crisi ha ormai ampiamente dimostrato. Se oggi le imprese non assumono, evidentemente, la ragione non sta nella rigidità del mercato del lavoro, ma nella mancanza di commesse.
Per invertire la rotta occorre rilanciare gli investimenti – a partire dagli investimenti pubblici – e sostenere i consumi. Cose che il governo, saggiamente, ha già cominciato a fare. Proprio per questo, così com’è, il decreto lavoro è un controsenso, soprattutto per chi come Renzi ha costruito parte del suo successo sulla promessa di restituire diritti a quei milioni di precari che le politiche di questi venti anni hanno lasciato nel limbo (per non dire di peggio). Ed ecco che invece il primo atto del suo governo abbatte d’un colpo i pochi argini rimasti allo sfruttamento più completo di quei lavoratori, tornando alla logica secondo cui davanti a un contratto quale che sia il lavoratore dovrebbe solo dire grazie, rinunciando a ogni forma di tutela.
Con contratti a tempo determinato come quelli previsti dal decreto Poletti, evidentemente, nessuna impresa avrà la convenienza a usare il tempo indeterminato, nemmeno nella forma del contratto d’inserimento su cui Renzi aveva incentrato il suo famoso “Jobs Act”. Contratto d’inserimento che invece è stato rimandato a un futuro disegno di legge. Un altro controsenso piuttosto difficile da spiegare: se si interviene con un decreto sulla parte normativa che riguarda i contratti, non ha senso farlo intervenendo solo su una parte della materia. L’effetto non potrà che essere disorganico e confuso.
Quella che lanciamo a Renzi è una sfida riformista: non c’è qui chi vuole la palude o chi tenta di difendere uno status quo che ha dimostrato tutti i suoi limiti; l’obiettivo condiviso è quello di provare a sconfiggere disoccupazione e precarietà. Per farlo, però, occorre allargare il campo di azione del decreto, aggiungendo il contratto d’inserimento a tutele progressive e correggendo il testo del governo in alcuni punti decisivi, come l’eccessiva reiterabilità dei contratti senza causale e la curiosa pretesa di un apprendistato senza apprendimento. Ed è necessario far sì che il ricorso al contratto d’inserimento sia più conveniente per le imprese del contratto a tempo determinato.
Quello che proponiamo è dunque un intervento di sistema, da chiudere nei tempi già stabiliti dal governo. Per mantenere l’impegno che tutti noi abbiamo preso con quei milioni di precari che aspettano da anni di uscire da una situazione drammatica, di cui ciascuno di noi porta una parte di responsabilità. E’ venuto il momento di abbandonare i feticci di un’ideologia già sconfitta dalla storia di questi anni e sepolta dalla cronaca di ogni giorno sotto le cifre impietose di questa interminabile crisi.